Con ai vertici due geniali attaccabrighe, due autori capaci di scardinare senza troppe remore l’immaginario cinematografico contemporaneo, la Danimarca di Lars von Trier e Nicolas Winding Refn è ormai sinonimo di pulsioni estreme sul grande schermo. Non ci sorprende più di tanto, quindi, che anche nel cinema di genere nudo e crudo la piccola nazione nordica esprima talenti poco addomesticabili, votati ad infrangere le regole canoniche della narrazione in ogni modo possibile.
Il film di Søren Juul Petersen, presentato in anteprima al Fantafestival, mira proprio a far sentire meno comodo lo spettatore sulla poltrona, sia per i carichi di ultra-violenza cui è sottoposto da un certo punto in poi il suo sguardo, sia (e questa secondo noi è la chiave rappresentativa più interessante) per come viene guidata la percezione dei fatti narrati dall’autore stesso, votato a scoperchiare i meccanismi di tale racconto cinematografico mettendone a nudo, con un miscuglio di lucidità e sadismo, gli ingranaggi.
Il primo elemento di rottura è l’arringa al pubblico condotta da una sorta di demiurgo, sulfureo imbonitore che da un palcoscenico d’impronta teatrale (o magari circense) avverte tutti, a nome del regista, di quanto violenti ed orribili saranno gli episodi successivamente narrati. Subito dopo una concisa didascalia contestualizza la storia in una Danimarca ben diversa da quella delle fiabe e con un “Lato Oscuro” tutto da esplorare. Tutta la parte squisitamente narrativa del film, impostata inizialmente quale thriller claustrofobico e destinata poi a diventare sempre più orrorifica, in una chiave torture porn alla Eli Roth, risulta inoltre suddivisa in capitoli i cui nomi rimandano direttamente alla tragedia greca: prologo, parodo ed esodo.
Questa complessa architettura diegetica ospita l’atroce disavventura cui andranno incontro due ragazze danesi, coi rispettivi partner, durante il loro turno di lavoro a una stazione di servizio, nel corso di una notte con pochissimi clienti nei paraggi a causa della contemporanea finale di calcio. Ma le ragazze non resteranno mai veramente sole, in quella desolata autostrada: c’è un’organizzazione cinica e spietata che spia persone come loro per poterle rapire, torturare selvaggiamente e riprenderne le atroci uccisioni in stile snuff movie, a beneficio del voyeurismo espresso dal pubblico della rete e da alcuni danarosi committenti.
Come si può constatare da questi scarni elementi, Finale non è certo nei temi un lungometraggio innovativo, si limita anzi a ripercorrere situazioni e stilemi alquanto diffusi nell’horror contemporaneo. La nota veramente disturbante, scannamenti a parte, risiede semmai nella morbosa cornice creata intorno alla storia e a ridosso di quella narrazione ad incastri, a tratti persino un po’ contorta, dalla quale deriva una sensazione di spaesamento sempre più acuta che genera agitazione continua, un’agitazione destinata a trasmettersi strada facendo dai personaggi agli spettatori.