Il film è l’immaginario viaggio a ritroso tra le fotografie, gli appunti, le lettere, i ricordi, i pensieri e gli articoli scritti da Antonio Cederna (1921-1996) sul disarmonico sviluppo urbanistico della città di Roma. Come rileggendo gli appunti di un taccuino privato, la voce dell’attore Giuseppe Cederna, figlio di Antonio, torna sulle memorie e le pagine scritte dal padre, guidato dai suoni e dai filmati d’archivio, nonché dalle ultime immagini dei recenti mega insediamenti urbani e commerciali costruiti a Roma nell’ultimo decennio.
In un condensato di soli 20 minuti Milo Adami è capace di mostrare il tempo: irrimediabilmente sospeso fra un passato che torna presente, ma anche un presente che appare quanto mai passato. In Mirabilia Urbis c’è tanto forse anche troppo: la speculazione edilizia degli anni ’70, la mancanza di uno spazio esistenziale, le borgate romane, la città che si crea per stratificazione di tempi diversi, la concezione della flânerie tanto cara ad Antonioni e non solo. Insomma un vero concentrato di suggestioni e argomenti che grazie a un montaggio efficacie che recupera found footage, fotografie e foto aeree dei cambiamenti della città nel corso del tempo. Grazie a un pastiche visivo si arriva a riprendere una dimensione non solo cinematografica in senso demiurgico, ma anche a concezioni urbanistiche, ambientali e piani regolatori che da sempre sono un tallone d’Achille della nostra penisola.
Per dirla con Christian Norberg-Shulz, architetto e teorico norvegese, nel film si parte da una forte concezione di spazio esistenziale derivante da uno spazio architettonico, intesi come sintesi di immagini o di schemi mentali fondamentali per un orientamento generico dell’uomo stesso o di quella condizione umana di stare al mondo. L’autore norvegese parla di spazio esistenziale riferendosi al mondo percepito dall’uomo. Allo stesso modo nel film Adami recupera con fermezza questa concezione, facendone una critica verso l’abitudine italiana nei confronti dell’ambiente che, in nome di una modernità, sostituisce con estrema facilita il verde al grigio.
In Mirabilia Urbis si riscopre la città perché muta con il tempo diventando capace di accogliere temporalità diverse, con stratificazioni architettoniche antagoniste che diventano, in nome del progresso, parte del paesaggio. Ecco quindi tantissime inquadrature di una Roma costruita sulle solide fondamenta di antichi resti, che si ergono a personaggi di una sceneggiatura teatrale cittadina all’insegna di edifici infinitamente grandi a nove piani.
Il film porta sullo schermo quello che, fin dai tempi più remoti, è stato chiamato come genius loci. Quest’ultimo è elemento determinante per stabilire una base per l’individuazione dei fenomeni concreti che avvengono nel nostro quotidiano: il genius loci è quindi lo spirito del luogo con il quale l’uomo deve necessariamente scendere a compromessi per giungere alla conquista dell’abitare. Fondamentale operazione in architettura è scovare il carattere di un luogo per creare anche spazi abitativi. Il film tematizza, con grande efficacia, non solo espressiva, ma anche contenutistica come sia basilare riprendere questo concetto e inserendolo in un contesto cinematografico ne determina, irrimediabilmente, una sua amplificazione. Comprendendo così, ancora più efficacemente, gli spazi e come questi vengono esperiti dall’uomo e come possono, a loro volta, influenzare l’abitante.
Il cinema italiano pare quindi confermare, ancora una volta, quel particolare riguardo nel rappresentare la città. La tendenza che la cinematografia nostrana, sfruttando la capacità del cinema di arrivare alle masse, illustra varie problematiche e/o i rapporti anche inconsci che il cittadino italiano avvia con le proprie città. In Mirabilia Urbis sembra affermarsi la concezione che l’arte deve avere un suo posto preciso nell’urbanistica, perché la città è intesa come un’opera di arte che esercita quotidianamente e in ogni momento la sua azione educatrice sulle masse. L’uomo fin dall’antichità agisce, percepisce, esiste, pensa e crea lo spazio in modo da esprimere la struttura del suo mondo: un “imago mundi”. Questa creazione può essere così denominata spazio espressivo o artistico. Vale così la visione shulziana per la quale chiunque elegga entro il suo ambiente un luogo in cui stabilirsi e vivere è creatore di uno spazio espressivo. Con la sua scelta l’individuo dà significato all’ambiente, assimilandolo ai suoi scopi, e adattandosi allo stesso.
In Mirabilia Urbis con prepotenza espressiva e, in un rigoroso bianco e nero, si afferma la necessità della città di farsi spazio abitativo per l’uomo e con l’uomo. Una questione che va ben oltre le trame di pellicola, ma che investe strade e piazze del nostro tempo. Un inno alla riflessione di come piani urbanistici cementificati influenzino noi esseri fatti di carne. Mirabilia Urbis si prospetta un monito verso una tipologia d’abitare fatto di un recupero di quella comunione e unione fra urbs e civitas tanto cara alla società romana.
Alessia Ronge