Film da Vedere

La maschera del demonio, il notevole esordio alla regia di Mario Bava

L’ammirazione nei suoi confronti e l’ammissione dell’influenza fondamentale di Mario Bava nel loro immaginario cinematografico, da parte di registi come John Carpenter, Joe Dante e Tim Burton, tutti folgorati proprio da La maschera del demonio, testimonia l’assoluta potenza seduttiva di questa piccola grande gemma nella storia del cinema italiano

Published

on

La maschera del demonio, un film horror del 1960 diretto da Mario Bava, che con questa pellicola esordì alla regia. Nel 1989 il figlio del regista, Lamberto, girò un remake del film dal titolo omonimo. il film è interpretato da Barbara Steele, John Richardson, Ivo Garrani, Andrea Checchi. Tratto dal racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ VijLa maschera del demonio è un film di culto, amato da registi come Quentin Tarantino, John Carpenter, Joe Dante e Tim Burton. Fu il film che diede inizio al genere gotico in declinazione horror in Italia, lanciando quella che successivamente diventerà una delle più grande icone cinematografiche, la divina Barbara Steele.

Sinossi
1830: sostando in una cappella in rovina nel fitto di un bosco, il dottor Chomas e il suo assistente Gorobec scoprono un sarcofago che custodisce le spoglie mummificate della strega Asa, giustiziata due secoli prima. Costei, entrando incidentalmente in contatto col sangue di Chomas, torna in vita e riprende a mietere le sue vittime nella famiglia della pronipote Katia, che abita in un vicino castello insieme al padre, al fratello e a un vecchio servo.

Con La maschera del demonio, suo esordio alla regia nel lungometraggio e gioiello seminale del nascente gothic-horror tricolore, Mario Bava gioca mirabilmente con le suggestioni visive e sonore della messinscena per esaltare il macabro fascino delle atmosfere: dal cielo, sempre grigio e minaccioso, contro cui si stagliano ombre lugubri e inquietanti, ai rumori della natura, sferzata dalle raffiche del vento e dagli ululati dei lupi, il film lascia precipitare da subito lo spettatore in un vortice di angoscia e disperazione incombenti. L’evidente eccessività nell’evocazione del brivido, sospesa nell’artificiosità della ricostruzione ambientale e scenografica e sovraccaricata fino allo spasimo dagli interventi sonori (musica, vento, tuoni, ululati, cigolii, urla di terrore), si dissolve nella “rassegnata” accettazione dell’iper-(ir)realismo estremistico della messinscena. E lo spettatore, ugualmente catturato, si appassiona e sobbalza. Bava riparte dalle riuscite incursioni nel genere di Riccardo Freda, con cui collaborò per I vampiri e per Caltiki, il mostro immortale (del quale diresse alcune sequenze), e dal successo strepitoso di Dracula il vampiro della Hammer per comporre la sua ode appassionata a un cinema che è “artigianale” solo perché affrancato, suo malgrado, dai lussi dell’industria, ma che resta sempre vitalissimo e incisivo, per certi versi geniale e, ovviamente, “efficiente”. Il Mario Bava di La maschera del demonio è l’aulica macchina da presa della Nouvelle Vague (mobilissima, sfrontata, incalzante) al servizio di un genere come l’horror: nell’inquadratura dello spillone infilato nell’occhio nasce tutto il cinema di Dario Argento, nei vermi nel teschio della strega c’è tutto quello di Lucio Fulci, nella martellata del boia sulla maschera del demonio (ideata dal padre di Bava, Eugenio) e negli zampilli di sangue che ne fuoriescono c’è l’alba dello splatter (e se il film fosse stato a colori sarebbe nato pure il gore). Ed è innovazione, fascino retrò, seduzione spettacolare, tensione, essenzialità stilistica, angoscia, morbosità, erotismo, romantica sospensione dell’incredulità. Tratto dagli sceneggiatori (Ennio De Concini, il montatore Mario Serandrei e, non accreditato, Mario Bava), come racconta lo stesso regista, da una novella di GogolIl Vij (“Naturalmente il genio degli sceneggiatori, compreso il mio, fece sì che di Gogol non rimanesse assolutamente nulla”), La maschera del demonio, che si avvale del contributo di un cast tecnico di prim’ordine (dalla fotografia dello stesso Bava fino alla sorprendente raffinatezza degli effetti speciali) e lancerà tra le luci della ribalta una futura icona come Barbara Steele, porta in dono all’horror (ma non solo) alcune splendide sequenze: dal magnifico incipit, con l’imposizione della “maschera del demonio” sul volto della strega, all’arrivo del professor Kruvajan e del suo assistente tra le rovine della cripta dei Vajda (“Più di mille anni di lotte, di odî, di amori ormai non sono che polvere dentro questi sepolcri. Non resta che il ricordo delle antiche gesta: sue queste pietre è scritta la storia della Moldavia”); dal meraviglioso piano sequenza che presenta la famiglia dei Vajda nel salone del castello, con Katia che suona il pianoforte, suo fratello Costantino intento a lucidare un fucile e il padre seduto in poltrona davanti al camino con lo sguardo perso nel vuoto, alla gag con la figlia della locandiera, che ha paura ad andare da sola nella stalla a mungere il latte (“Sì, ma la stalla è vicina al vecchio cimitero”), breve e ironico prologo alla sequenza della resurrezione di Igor; dal bacio mortale tra Asa e il professore al rituale per liberare l’anima dalla dannazione (ovvero uno spillone infilato nell’occhio sinistro) allo scheletro in decomposizione di Asa nascosto dal mantello nero al fuoco purificatore del finale. L’ammirazione nei suoi confronti e l’ammissione dell’influenza fondamentale di Bava nel loro immaginario cinematografico da parte di registi come John Carpenter, Joe Dante e Tim Burton, tutti folgorati proprio da La maschera del demonio, testimonia l’assoluta potenza seduttiva di questa piccola grande gemma nella storia del cinema italiano.

Commenta
Exit mobile version