Blue my Mind – Il segreto dei miei anni: intervista alla regista del film Lisa Brühlmann
Nel raccontare uno dei più delicati riti di passaggio, ciò che corrisponde alla trasformazione del corpo di un’adolescente in quello di una donna, Blue my Mind – Il segreto dei miei anni rende le paure e il disorientamento della giovane protagonista il soggetto ideale per un genere ibrido, continuamente in bilico tra fantasia e thriller. Abbiamo intervista la regista del film, Lisa Brühlmann
L’efficacia della tua regia consiste nell’aver trovato il punto di equilibrio tra due diverse spinte: da una parte quella della riconoscibilità della storia, che si basa su codici di genere molto evidenti e su una forma molto diretta tipica dei film americani; dall’altro, la ricerca di un’identità precisa che possa essere identificata nella miscela di realismo e immaginazione. Esistevano queste opzioni nella messa in scena del film?
Che questo film fosse un mix di generi è stata una decisione molto intuitiva e mi è stato chiaro fin dall’inizio. Volevo che il film fosse sensuale e poetico e allo stesso tempo rude e realistico. Per me è stato molto importante che questa storia non fosse “solo una favola”, ma risultasse reale e che l’ambientazione fosse ben studiata.
Nel raccontare uno dei più delicati riti di passaggio, ciò che corrisponde alla trasformazione del corpo di un’adolescente in quello di una donna rende le paure e il disorientamento della giovane protagonista un soggetto per un genere, diciamo così, ibrido, tra thriller e fantasia.
Per me era importante trovare un equilibrio tra il genere fantasy e il realismo. Volevo che il pubblico non fosse in grado di sedersi. Volevo dare l’impressione che questa storia stesse effettivamente accadendo ora, che fosse reale. Con mia sorpresa, tutti gli attori, pur giovani, hanno aderito al proposito del film spontaneamente; non l’hanno mai messo in discussione, anzi lo hanno capito pressoché d’istinto.
Uno dei motivi della tensione del film deriva dal fatto che lascia il dubbio che la metamorfosi fisica di Mia non sia reale ma il risultato dell’immaginazione della ragazza. Dal punto di vista narrativo qual è stato il principio che ha guidato questa scelta e come l’hai tradotta visivamente per renderla coerente con il testo del film?
Quando ho scritto la sceneggiatura mi è stato chiaro che questo dubbio si sarebbe manifestato davvero. Nel mondo reale se ciò accadesse, naturalmente, cominceresti a chiederti – ma sto impazzendo? In realtà conosco questa sensazione, quella di quando sei un giovane adulto e non ti senti a tuo agio, ti senti, cioè, differente. Di nuovo, allora, parliamo di una metafora corrispondente a quella sensazione.
La famiglia, come i cambiamenti fisiologici, rappresentano un elemento di instabilità, sia nella vita di Mia che in quella di Gianna, la sua migliore amica. Anche quando le famiglie sono unite – come quella di Mia – è la loro incapacità di aiutare i figli a determinarne l’insofferenza verso l’esterno. Volevo chiederti se, ampliando le prospettive, questa incapacità potesse essere collegata alle istituzioni del tuo paese.
In Svizzera tutto ruota intorno alle prestazioni, viviamo in una società orientata al risultato. E, soprattutto, da adolescente ti rendi conto che vali quanto puoi ottenere. La principale preoccupazione dei genitori di Mia sono i suoi voti a scuola. Mentre i genitori di Gianna sono del tutto assenti.
Anziché esplorare l’ambiente circostante, la macchina da presa rimane attaccata ai corpi corpi dei protagonisti, tracciando una vera geografia umana della gioventù contemporanea. Questo tipo di messa in scena mirava a un obiettivo specifico, come può essere quello di restituire al meglio psicologie e stati d’animo dei personaggi?
Volevo raccontare la storia dalla prospettiva di Mia; essendo il suo punto di vista non vediamo più di quello che vede lei. Così succede per la macchina da presa e questa è la ragione per cui il pubblico non sa più cose di quelle che conosce Mia. Questo era uno dei pochi dogmi che abbiamo avuto nel girare il film.
Blue my Mind riesce a vivificare le immagini che offre, dimostrando che è possibile farlo senza usare effetti speciali. Tu lavori, cioè, più sulla suggestione che sull’evidenza visiva. È stata una scelta, una necessità o entrambe?
Ho scritto la sceneggiatura senza pensare alla sua praticabilità perché non volevo limitarmi. Una volta terminato lo script, abbiamo scelto di usare gli SFX più dei VFX. Inoltre, ho scelto solo di mostrare quanto necessario per capire e rendere credibile ciò che sta succedendo. Volevo concentrarmi sulle emozioni, sui personaggi, anziché sugli effetti speciali.
Tra i riferimenti di Blue My Mind penso che possiamo menzionare almeno due film: Bling Ring, soprattutto per quanto riguarda il cupio dissolvi di Mia e delle sue amiche, e poi Lasciami entrare, per il contesto dei rapporti umani e delle dinamiche con cui si relazionano i diversi livelli di realtà. Sono questi i film che hai tenuto a mente? E cos’altro ha influenzato il tuo lavoro?
Ci sono molti registi che adoro. Per questo film, naturalmente, mi sono ispirata a diversi miti greci e alle fiabe sulle sirene. Anche John William Waterhouse, che ha realizzato dipinti su molti miti, è stato fonte d’ispirazione. In termini di registi, amo il lavoro di Sofia Coppola, Larry Clark, Andrea Arnold e Jaques Audiard e molti altri ancora.
È possibile stabilire una relazione tra la costruzione della scenografia che hai utilizzato per Blue my mind – essenziale, ragionata e lineare – e lo spirito sostanzialmente razionalista di un’intera nazione, la tua Svizzera? Allo stesso modo, quale vincolo lega l’uso prevalente di una tavolozza cromatica dominata da una sfumatura grigio-blu al mutevole orizzonte psicologico di Mia, in equilibrio tra un mondo che lei non riconosce e un altro che sembra rivendicare, a causa di repentini ricordi, l’appartenenza?
Ho trovato interessante impostare questa storia durante l’estate, dove fa caldo ed è soleggiato. Sei più esposto. Riguarda il corpo, il tuo aspetto e devi mostrarlo. Non è possibile nascondersi. Il contrasto derivante di avvolgere tutto questo mondo caldo e soleggiato in un colore freddo sembrava giusto per questa storia.
Nella parte di Mia, Luna Weller riesce a rendere il dualismo della sua natura e, in particolare, l’opposta fragilità / natura selvaggia, donna / bambino. Penso che tu abbia lavorato molto sulla sua particolare fotogenia. Vuoi parlare di questo?
Alla fine, questa è una storia che riguarda il collegamento con la tua natura selvaggia e femminile, amando te stesso e seguendo la tua strada. Avevo bisogno di un’attrice che potesse non solo essere vulnerabile ma anche potente, senza paura. Luna è una fantastica, giovane attrice e ha accesso a tutte queste sfumature presenti nella sua incredibile capacità d’interprete.