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Quel giorno d’estate: intervista al regista del film, Mikhael Hers

Come Spike Lee con La 25ª ora anche Mikhael Hers in  Quel giorno d’estate si prende la responsabilità di tornare per la prima volta sul luogo del delitto, rievocando gli attentati terroristici occorsi a Parigi qualche tempo fa. Nel farlo, sceglie di raccontarli da un punto di vista intimo e privato, che tiene conto della cronaca più per le suggestioni da essa evocate che per una ricostruzione minuziosa degli avvenimenti. In occasione dell’uscita del film nelle sale italiane abbiamo intervistato il regista parigino

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Come Spike Lee con La 25ª ora, adesso anche tu come regista di Quel giorno d’estate ti prendi la responsabilità di tornare per la prima volta sul luogo del delitto, rievocando gli attentati terroristici occorsi a Parigi qualche tempo fa. Per raccontarli scegli un approccio intimo e privato che tiene conto della cronaca più per le suggestioni da essa evocate che per una ricostruzione minuziosa degli avvenimenti.

All’epoca degli attentati avevo sentito che c’era stato un eccesso di immagini su media e giornali con i resoconti delle stragi a ricordarci di continuo ciò che era successo. A quel punto mi sono detto che Quel giorno d’estate non doveva essere incentrato sugli attentati terroristici quanto, piuttosto, privilegiare il lato intimo, privato e famigliare. Certo, non potevo far finta che non fosse successo nulla: infatti, gli avvenimenti non li ho cancellati ma sono lì a ricordarci ciò che è successo. Ho solo pensato di metterli nel film in maniera più allusiva, suggerita; di lavorare sulla periferia e non sul centro. Sono convinto che spesso gli avvenimenti arrivano meglio se invece di raccontarli in maniera frontale li si affronta di lato. Quindi, narrare una storia intima e svilupparla sulle conseguenze di questa violenza è anche la voglia di ritrarre Parigi in un momento storico particolare, segnato da questi attentati.

Il film coglie il punto di non ritorno di una città che dopo la tragedia non potrà più essere la stessa. Allo stesso tempo, però, Quel giorno d’estate attraverso i suoi personaggi manifesta anche la volontà di ricominciare a vivere, nonostante tutto. Ti chiedo se tra le urgenze che ti hanno spinto a realizzarlo ci sia anche quello di mettere in scena una catarsi personale ?

Anche senza saperlo, dietro la realizzazione di un film si nasconde sempre il tentativo di essere felici. Nonostante la tragicità della premessa, il mio intento non era quello di raccontare una storia cupa e triste, ma anzi volevo fare comunque un film luminoso in cui ci fosse della speranza. È vero che si racconta un fatto molto violento e che c’è quest’idea dell’innocenza derivata da un cambiamento di percezione e di stili di vita, ma io parlo anche di come riuscire ad andare avanti, continuando a guardare la vita con speranza. È difficile spiegarlo a parole, ma volevo fare un film dove ci fosse la speranza della luce.

Quel giorno d’estate comincia come una commedia, spensierato e leggero, poi, con l’irrompere della tragedia anche, la narrazione cambia passo, diventando riflessiva e drammatica. Quali espedienti drammaturgici hai adottato per evitare che uno scarto così repentino risultasse un costruito meccanismo?

In effetti, è un problema che ci siamo posto prima degli altri. Sia in fase di sceneggiatura che di montaggio, abbiamo lavorato sulla necessità di passare al punto centrale non prima di aver conosciuto un po’ i personaggi ed essere entrati nella loro quotidianità, facendo in modo che noi e il pubblico ci affezionassimo a loro. Si è trattato di un dosaggio molto delicato perché questa parte doveva essere da né troppo breve, al punto da non avere tempo per capire le loro dinamiche, ma neanche troppo lunga, da rendere insopportabile distaccarcene nella maniera tragica che, di lì a poco ,si sarebbe verificata. Dopodiché, l’improvvisa irruzione della violenza nelle nostre vite è qualcosa su cui io mi sono molto interrogato e, come cercavo di dire prima, si fanno i film anche per cercare delle risposte e trovare la propria serenità. Questo è un tema che da sempre è al centro del mio cinema.

 

Seppure per differenti ragioni e modalità, Amanda e suo zio sono costretti a crescere senza i loro genitori. Può essere questo uno dei temi centrali del film?

Era da tempo che volevo fare un film sul rapporto tra una bambina e un adulto non cresciuto, come succede ad Amanda che si ritrova a vivere con questo zio che non è ancora diventato grande e che, per caso si ritrova, con la responsabilità di essere genitore. In realtà, l’idea era di fare un film sulla maternità non cercata. Poi, però, in effetti è vero che Amanda e lo zio hanno perso la figura materna, quindi sicuramente c’è anche questo aspetto su cui in realtà non avevo ragionato cosi tanto.

Adotti una regia invisibile ma molto efficace nel raccontare il momento in cui la tragedia irrompe nelle vite dei personaggi. L’immagine iniziale con le foglie mosse dal vento rende bene l’ansia per qualcosa che sta per accadere. In più, ci sono dei campi lunghi che tendono a circoscrivere la vita all’interno di una spazio ristretto, separato dal resto della città. Indizi di una realtà che troveranno conferma nelle scene successive.

Sin dall’inizio sapevo che ci voleva una regia molto semplice, quasi trasparente, con meno artifici possibile. Quindi, campi e controcampi corredati da pochi elementi evidenti di regia. Puntavo soprattutto a eliminare la mia presenza e quella dei miei collaboratori.

Nell’avvicinarti al momento della tragedia – e in parte del suo svolgersi – privilegi il silenzio anziché i rumori. Nel recarsi all’appuntamento con la sorella, il protagonista attraversa Parigi in bicicletta immerso in un silenzio che sembra sospendere qualunque pensiero, in attesa di ciò che potrebbe accadere. Puoi dirmi qualcosa di questa sequenza?

Noi osserviamo l’attentato con gli occhi del protagonista e, dunque, vediamo Parigi quasi deserta. Poi, lui arriva nel parco e, in realtà, è come se entrassimo nella sua testa e vedessimo con i suoi occhi: da qui il mix di immagini, alcune delle quali molto crude perché piene di corpi insanguinati, altre quasi irreali in cui volevo rendere il lasso di tempo che separa il momento in cui ciò che si vede arriva al cervello, e quindi l’immagine così come appare prima di essere messa a fuoco dalla nostra mente. Volevo raccontare l’attimo in cui il protagonista osserva l’accaduto senza rendersi bene conto di cosa è successo. Anche il silenzio faceva parte di questa scelta estetica. Vediamo Parigi con la luce del fine pomeriggio, che è un po’ evanescente, e dunque si associa bene alla mancanza di rumori. A supporto di quello che sto dicendo, c’è la testimonianza di alcune persone sul fatto che subito dopo l’attentato ci sono alcuni secondi di silenzio terrificante prima che comincino le grida, i suoni delle sirene e la frenesia dei gesti. Quindi, c’è anche qualcosa di vero in questo silenzio cosi irreale. C’è da dire che non avevo nessuna pretesa di raccontare l’attentato in maniera realistica o scientifica, perché per fortuna non è qualcosa che ho conosciuto in prima persona. Dunque non so dire se le cose siano andate veramente cosi. A mio avviso questa è la forma migliore, perché continuo a dire che noi vediamo la tragedia attraverso gli occhi di un ragazzo e quindi secondo quello che lui vede e percepisce.

Per la parte dei protagonisti hai scelto due attori emergenti come Vincent Lacoste, apprezzato in film come Eden e Ippocrate, e Stacy Martin, che ha recitato per Lars von Trier in Nymphomaniac. Che tipo di attori sono e come avete lavorato insieme?

Per me Vincent Lacoste doveva diventare un po’ l’ambasciatore di questo film, proprio perché lui ha una forma di grazia e di leggerezza che si adattavano alla perfezione al tono del film e ai suoi contenuti. Non avevo bisogno di un interprete che fosse più celebrale, più chiuso o sovraccarico di altre cose. Lui, comunque, è una persona semplice, leggera e molto empatica, caratteristiche che calzavano a pennello con un personaggio come quello di David, ordinario nel senso buono del termine. Vincent ha una maniera di lavorare molto intuitiva: lui si era preparato sulla sceneggiatura, però sul set è stato immediato, non c’è stato bisogno di fare grosse chiacchiere o di troppe spiegazioni. Ci siamo intesi subito, e fin dai primi ciak è andato tutto bene. Per contro, Stacy Martin è un’attrice molto più cerebrale, bisognosa di scavare nella psicologia del personaggio, di conoscere il suo background, di sapere da dove viene e cosa fa. Poi lei, avendo una doppia nazionalità, ha una maniera di parlare francese che ha una musicalità particolare, e quando sono sul set mi piace lavorare con attori che utilizzano metodologie diverse. Visto che in genere non faccio prove prima di iniziare a girare, con Vincent è stato tutto immediato, difficilmente abbiamo dovuto ripetere. Con lei, invece, abbiamo lavorato una po di più, proprio perché ha un modo di lavorare più costruito, più razionale, però alla fine il risultato è quello che avete visto sullo schermo.

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