Taxidrivers Magazine

L’angelo del crimine di Luis Ortega: la gratuità del male, tra Kubrick e Haneke

L’angelo del crimine racconta la storia vera del criminale Carlos Robledo Puch, nato a Buenos Aires il 19 gennaio 1952. Condannato per undici omicidi, un tentato omicidio, diciassette rapine, uno stupro, un abuso sessuale, due sottrazioni di minorenne e due furti. Detenuto dal 1973; a Gennaio del 2019, avendo trascorso 45 anni in prigione, è diventato il prigioniero più longevo in Argentina

Published

on

Le persone sono pazze? Qualcuno considera la possibilità di essere libero? Andare dove vuoi, ovunque tu voglia. Abbiamo tutti un destino. Io sono un ladro nato. Non credo in “questo è tuo, e questo è mio”. Con questo monologo Carlos, sedici anni, entra in una casa di lusso e inizia il suo percorso criminale. Beve, balla, ruba. Buenos Aires 1971. A scuola ha un incontro violento con il coetaneo Ramon, figlio di un pregiudicato e di una madre spregiudicata; inizia a frequentarlo e a compiere furti e omicidi. Con la sua faccia da angelo, bello biondo e insospettabile, continua il suo percorso criminale con il compagno rivale e amante, insensibile a qualunque reato commesso. Uccide con estrema freddezza e superficialità, sotto l’effetto autoreferente di un compiaciuto fascino da bugiardo manipolatore. Figlio di persone modeste, ha ricevuto un’educazione onesta e equilibrata, restando tuttavia  immune all’esempio vissuto in famiglia. Dopo la morte del complice Ramon, a causa di un incidente che lo vede alla guida, troverà un altro complice con il quale proseguirà indisturbato le sue attività criminali, alternando furti e omicidi a ritorni a casa dai genitori per mangiare la sua cotoletta preferita. L’efferatezza dei suoi reati raggiungerà livelli inauditi, fino all’arresto nel 1972, in un crescendo di follia e violenza, vissuto in un momento storico di estrema corruzione e grottesca situazione storico sociale.

El angel, titolo originale del film presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2018, racconta la storia vera del criminale Carlos Robledo Puch, nato a Buenos Aires il 19 gennaio 1952. Condannato per undici omicidi, un tentato omicidio, diciassette rapine, uno stupro, un tentato stupro, un abuso sessuale, due sottrazioni di minorenne e due furti. Condannato all’ergastolo, è detenuto dal 1973; a Gennaio del 2019, avendo trascorso 45 anni in prigione, è diventato il prigioniero più longevo in Argentina.

Il film racconta artisticamente la storia folle di questo giovane assassino che sfugge a qualunque relazione lombrosiana tra aspetto fisico e comportamento violento. La madre lo aveva desiderato così lungamente che si era rivolta a un prete, il quale riteneva che solo Dio avrebbe potuto darle ciò di cui il mondo aveva bisogno (ironia della sorte!). Il ragazzo racconta di aver ricevuto esclusivamente buoni esempi; i genitori sono brave persone, lui è stato inviato dal cielo e si definisce una spia di Dio. Ogni atto criminale compiuto non suscita alcuna emozione, ma solo la dimensione di un banale atto routinario. L’insensibilità ontologica che lo costituisce evidenzia l’inutilità di ogni atto compiuto, sprovvisto di qualunque finalità, seppur psicopatologica. Nessun mezzo può giustificare un fine che non c’è, perché ogni azione di Carlitos è fine a se stessa: “Il mondo è solo dei ladri e degli artisti, gli altri lavorano per vivere”.

L’angelo del crimine è un film stilisticamente raffinato, esteticamente sofisticato, che riesce a raccontare una storia criminale, cruda e malvagia in modo assolutamente originale, con totale eleganza, senza alcuna, superflua volgarità. Tornano alla mente Lo straniero di Camus, Alex di Arancia Meccanica e Peter di Funny GamesLuis Ortega, tra il romanzo di Camus e i crimini narrati da Kubrick e Haneke, rievoca le azioni di quei giovani che si esauriscono nei gesti e nella confusione dei codici fino al limite dove è il codice della vita a confondersi con quello della morte. La disconnessione totale tra cuore mente e comportamento, in una soffocante atrofia emotiva che alimenta la virtù dell’irresponsabilità della propria assoluta insignificanza. Carlos non sceglie mai nulla, è atto vuoto, gesto meccanico: nessun piacere ne deriva, solo semplice, violenta, omicida, inutile re-azione, senza una reale causa. La storia, la cura delle immagini, la colonna sonora, rimandano a Il Clan di Trapero, l’uso del corpo al Tony Manero di Larrain e insieme a questi l’eterna, metafisica più che fisica, lotta inesauribile e insolubile tra il bene e il male. Qualunque perché si esaurirebbe nella domanda che è l’unica risposta possibile. Il male è incerto e indefinito.

Commenta
Exit mobile version