Film da Vedere

L’ultima donna di Marco Ferreri, con Gérard Depardieu, Ornella Muti e Michel Piccoli

Ne L’ultima donna Marco Ferreri descrive la nascita e il progressivo dissolvimento della relazione tra un uomo e una donna. Il rapporto di coppia narrato dal regista si presenta all’insegna dell’invettiva contro il patriarcato e la famiglia. Con Gérard Depardieu, Ornella Muti, Michel Piccoli, Renato Salvatori

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L’ultima donna, un film diretto da Marco Ferreri, con Gérard Depardieu e Ornella Muti del 1975. Soggetto e sceneggiatura di Rafael Azcona, Marco Ferreri e Dante Matelli, fotografia di Luciano Tovoli, musiche di Philippe Sarde. Prodotto da Edmondo Amati. Nel cast, oltre a Gérard Depardieu e Ornella Muti anche Michel Piccoli e Renato Salvatori.

Sinossi
Giovanni è un ingegnere cassintegrato, lasciato dalla moglie, che vive ora col figlioletto Pierino nella grigia periferia industriale di Parigi, a Créteil. All’asilo del bambino conosce Valeria che, in crisi col fidanzato, inizia a frequentarlo. I due vanno a convivere, ma dopo un iniziale periodo molto felice (anche sessualmente), il rapporto scivola nella routine e s’incrina senza un motivo ben preciso. In seguito ricompare l’ex moglie e Giovanni trova pure una nuova fiamma. Nel finale, Giovanni, torturato dall’impotenza psicologica a gestire la sua vita sentimentale e accusato di fallocrazia dalle donne, s’evira.

La recensione di Davide Schiavoni

Marco Ferreri è stato uno dei più grandi e sperimentali cineasti italiani, e per questo è stato spesso apparentato alla “nouvelle vague”, tanto che gli è invalsa, presso la critica più accorta, la definizione di “Godard italiano”. Ma, invero, è difficile ed anche inutile tentare d’etichettare un artista così geniale e “sregolato” come Ferreri. Antiborghese, antimatrimonialista, anticattolico e anticapitalista, nel corso della sua esperienza artistica svilupperà una satira corrosiva, salace e vetriolica che in Italia non ha eguali. Da questo inconfondibile spirito tagliente sono interamente attraversate le sue opere più note: da “La donna scimmia” a “La grande abbuffata” (per certi aspetti, addirittura in anticipo coi tempi rispetto al pasoliniano “Salò o le 120 giornate di Sodoma”) fino a “Dillinger è morto”. Ma Ferreri è anche, e soprattutto, un esistenzialista, e tale carattere connota in particolare i suoi film meno acclamati. E’ il caso de “L’ultima donna” e di “I love you”: due opere inscindibili, in cui l’esistenzialismo del regista viene in rilievo attraverso una sofferta autoanalisi sul rapporto tra i sessi che, da una durissima critica a sé stesso, evolve fino a giungere ad una lucida e paritaria disamina dei problemi sottesi alle dinamiche tra maschio e femmina.

Giovanni, giovane ingegnere separato e padre di famiglia, incontra la bella Valeria, insegnante d’asilo del figlio. Inizia una passionale e tribolata storia d’amore, che si sviluppa (e avviluppa) in un’estrema fisicità, fino a culminare col sacrificio di uno dei due amanti.

“È la coppia ad essere finita. Non si può più vivere in due.”

Ne L’ultima donna Ferreri descrive la nascita e il progressivo dissolvimento della relazione tra un uomo e una donna, e lo fa mettendo in risalto soprattutto le colpe del maschio, incarnate apoditticamente da tutta una cultura di stampo patriarcale. Ne reca  il segno già l’incipit del film (in cui riecheggia quella artificiosa atmosfera d’alienazione, da cui è pervaso il prologo del capolavoro di Ferreri, Dillinger è morto), dove gli ambienti esterni di una Parigi di periferia richiamano chiare simbologie falliche: industrie, prima, e casermoni, poi, che svettano in altezza rappresentano perfettamente il concetto dell’arroganza maschilistica. Concetto che viene ulteriormente ed eloquentemente esaltato nel momento del dì calcistico: in contemporanea a un lento piano-sequenza che procede abbracciando in largo la facciata di un enorme edificio, s’ode dalle finestre degli appartamenti l’effondersi del brusio delle telecronache sportive: ennesimo atto di prepotenza, che si pone metaforicamente come un “soffocamento” della voce della donna.

Il rapporto di coppia narrato dal regista si presenta, dunque, all’insegna dell’invettiva contro il patriarcato e la famiglia (temi ricorrenti già in altre pellicole del cineasta milanese, su tutte La donna scimmia); e quest’impostazione ideologica è resa esplicita nella scena in cui Valeria (Ornella Muti) si ribella al modello impostogli da Giovanni (Gerard Depardieu), dopo che questi ha inscenato un finto matrimonio, con tanto di ricostruzione del percorso di vita dei coniugi dalla nascita fino alla costituzione del nucleo familiare. Ma Ferreri non propone solo riflessioni di carattere sociale e culturale, va oltre e si spinge fino a scandagliare e problematizzare la sessualità all’interno della relazione tra due amanti. Ne esce un affresco a tinte fosche che, per come viene esasperatamente ritratto all’interno delle mura dell’abitazione di Giovanni e per come si conclude, in parte rievoca L’impero dei sensi. Tuttavia, il piacere sessuale e la passionalità sono, dal punto di vista estetico, rappresentati in maniera antipodica rispetto al film di Oshima: ai colori intensi e caldi che contrassegnano quest’ultimo si contrappone una fotografia (Luciano Tovoli) algida, tra il glauco e il ceruleo, cui s’aggiungono i chiaro-scuri degli interni, ove le figure dei due amanti risultano spesso adombrate, con la conseguenza di risultati meno “esibizionistici” nei momenti copulativi. L’impressione, dunque, non è quella d’un fuoco che arde fino a bruciare tutto, ma d’una freddezza onnipervasiva, come a dimostrare, per vie diverse ma con i medesimi esiti della pellicola giapponese, che la fiamma dell’eros non divampa allo scopo di animare due corpi fino al massimo del vitalismo, ma, al contrario, determina la morte di quello stesso (illusorio) vitalismo. Se però Oshima si sofferma sulla messinscena ossessiva della dinamica di Eros e Thanatos, culminante nell’ineludibile vittoria della pulsione distruttiva, Ferreri, invece, si concentra più sull’aspetto dell’autoanalisi, messa in atto attraverso il personaggio interpretato da Depardieu. S’assiste, così, a dialoghi e monologhi che rivelano la profonda conflittualità che tormenta l’uomo, combattuto tra prosaici desideri di dominio e struggimento per la percezione di qualcosa che svanisce per sempre a causa del degrado nella carnalità (“passata la voglia si resta soli. È vero, allora non si scopa più, basta scopare… così mi tengo la voglia di te, sempre”; “che idea stronza quella di non chiavare. Ce l’ho duro come un bastone”). E in questo “gioco” di contrari lo scotto che, in definitiva, si paga è altissimo: è l’anelata empatia fusionale a smarrirsi del tutto, sopraffatta com’è da quell’impero dei sensi che vanifica qualsiasi tentativo volto a raggiungere una condizione edenica di coppia, pregiudicando pure sentimenti che esulano dall’amore stricto sensu. Ne L’ultima donna, infatti, è anche il concetto di philìa ad essere messo in crisi attraverso il comportamento egoistico del protagonista, altresì implicato in una sconveniente relazione con la moglie del suo migliore amico: ulteriore paradigma di donna delusa dal dilagante narcisismo sessistico dell’uomo (Giovanni: “Valeria ti presento la mia amica Benedetta”; Benedetta: “Amica? Vittima”).

Ma se per un verso l’autoanalisi ferreriana conduce – soprattutto – alla denuncia dei più bassi istinti maschili, dall’irrefrenabile desiderio di possesso (e non solo nei confronti della donna: Giovanni, infatti, s’arroga pure il diritto esclusivo di curare il proprio bambino, estromettendo tanto la moglie quanto l’amante) alla brutalità (eloquenti, in tal senso, la scena in cui Depardieu e Piccoli violano la cesta di Valeria scassinandola, nonché quella del primo incontro tra i due amanti, in cui lui concupisce lei con esuberante veemenza mascolina), per altro verso emergono anche elementi che mettono in discussione il vittimismo femmineo: è Giovanni a rivelare che il suo futuro da ingegnere è stato determinato dalla volontà della madre quando ancora era un bambino; ed è lo stesso a scoprire che Valeria conserva, tra i suoi effetti personali, la foto di due leoni copulanti (“mi piacciono i felini”). Volontà di dominio e bestialità non sarebbero estranei, dunque, neanche alla donna.

Bisognerà aspettare circa dieci anni, però, affinché Ferreri pervenga a una visione più equilibrata delle problematiche attinenti ai due sessi. Anche se in maniera decisamente meno marcata rispetto a L’ultima donna, alcuni esterni caratterizzati da una sovrastante simbologia fallica ricorrono pure in I love you, dove ritorna prepotentemente il tema dell’ossessione maschile per lo spasmodico desiderio di padroneggiare, controllare, comandare e possedere “l’oggetto femminile”. Quindi, ulteriore severissima autocritica ma, come nella pellicola del ’76, anche qui emergono, e con ancor più evidenza, reprimende che non risparmiano nemmeno colei che dovrebbe passare per vittima. Laddove “lo scheletro nell’armadio” della Muti si rivela essere soltanto la foto di due felini che s’accoppiano, nascosta nella sua cesta tra le poche testimonianze del proprio passato: scoperta che si pone in netta contraddizione col suo desiderio, più volte espresso, di essere trattata dolcemente; in I love you, invece, l’elemento femmineo è quasi del tutto parificato al maschio. Anche la donna è mossa da un irrefrenabile impulso sessuale, e anche lei è attratta dal feticcio che “ama” a comando, dimostrando, alla stessa stregua dell’uomo, che non è neppur’essa immune alla connaturata inclinazione a possedere egoisticamente l’altro. Ma se uomo e donna, alla resa dei conti, risultano speculari per il marcio di cui sono entrambi portatori, d’altro canto la loro comunanza si disvela pure nell’insopprimibile, inappagato e – per ciò stesso – nostalgico bisogno di amore, puro e profondo. Così come il personaggio di Lambert si strugge allorché il portachiavi umanizzato non risponde più al suo richiamo, egualmente la ragazza, con cui lui ha un passeggero incontro, si emoziona e piange quando scopre la virtù di quello che, solo apparentemente, si presenta come un insulso feticcio. Ma perché il candore e il trasporto con cui un semplice oggetto proferisce le fatidiche parole I love you non sono riproducibili da due esseri umani, che pure sono attanagliati e lacerati dal desiderio di amare ed essere amati? Cosa ci spinge a sfruttarci l’un l’altra, ad usarci e gettarci via? In altre parole, a farci del male? La risposta, in quest’ultimo Ferreri, è sarcastica ed è ravvisabile nella simbolica ricorrenza di banane, che richiamano la trasversale natura animalesca di ogni soggetto, maschio o femmina che sia. Ed è ciò che suggerisce, tra le altre, la scena finale nella quale si vede il protagonista, accovacciato sulla spiaggia e con in grembo un casco di banane, staccare da questo un frutto e mangiarlo. Donne e uomini scimmie irrimediabilmente assoggettati alla loro disumana condizione, che li rende incapaci di approdare a una qualsivoglia spiritualità. E questa volta non v’è nemmeno margine per una illusoria fuga: il “veliero di Dillinger” è una chimera irraggiungibile, che s’allontana lasciando il giovane Lambert solo e triste nelle acque di un mare che assurge a emblema del deserto che circonda ogni individuo. Ma se non si può sfuggire alla nostra natura e a tutte le problematiche che la sessualità comporta, allora risulta del tutto vana pure la soppressione della stessa sessualità, rappresentata dalla recisione del fallo cui giunge Depardieu nell’atto finale del film; invece si rende(rebbe) necessaria, e urgente, una ricerca che vada nel senso d’un suo oltrepassamento. Perciò, se è vero che “è la coppia ad essere finita” e che “non si può più vivere in due”, è vero pure che tale constatazione è valida se non si perviene a una “riscrittura” delle condizioni, sulla base delle quali nasce e si sviluppa ogni rapporto di coppia. Altrimenti non rimarrebbe che arrendersi e rimettersi a quel semplicistico “mah, così è la vita…”, che dice tra sé Giovanni mentre si prepara da mangiare dopo l’ennesima scopata, prendendo mestamente atto di come l’amore sia solo un inganno della natura, finalizzato esclusivamente alla prosecuzione della specie (cf. Metafisica dell’amore sessuale. L’amore inganno della natura, Arthur Schopenhauer); tant’è che la causa della crisi e della rottura della relazione sentimentale, nel prologo di I love you, è proprio l’inappagato desiderio di un figlio. Se così fosse, se tutto è destinato a ridursi al soddisfacimento di meri impulsi fisiologici, allora non ci sarebbe scampo. È infatti il dolente distacco dalla purezza a determinare la sciagura della coppia: lo percepisce il giovane Lambert, costretto a bramare l’amore incondizionato di un oggetto, in assenza di un soggetto capace di fare altrettanto (la scena in cui lui chiede alla ragazza di pronunciare le parole “i love you”, ottenendo da questa soltanto una risposta meccanica, fredda e falsa); e ne dà prova il personaggio di Giovanni, il cui gesto estremo riconduce a una asessualità quale lancinante istanza, appunto, di purezza. Di un candore di cui soltanto il paffuto pargolo, che assiste impotente alle insensate vicissitudini degli adulti, è, allo stato delle cose, depositario. La locandina de L’ultima donna ritrae in chiaro, e su sfondo arancione, l’uomo, il bambino e la donna; ma all’interno della pellicola questa stessa triade è colta, nella medesima posizione, con un totale oscuramento delle figure.

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