15 Luglio, Santa Rosalia. Casa sul mare, i boss di Cosa Nostra festeggiano insieme alle famiglie. Si balla, si canta, tra patti silenti e nuove difficoltà familiari. Omicidi a orologeria cominciano a scandire i giorni dell’anno, mentre dal contrabbando di sigarette si è passati negli anni Ottanta al traffico di eroina di cui Palermo è il capoluogo mondiale. Troppi soldi che basterebbero ad arricchire tutti per generazioni, ma i corleonesi vogliono il potere, perché secondo Totò Riina “comandare è meglio che fottere”.
Tommaso Buscetta, nato ad Agrigento, marito a 16 anni, inizia a spostarsi in Argentina, poi torna in Sicilia, dopo in Messico e, infine, prima dell’estradizione in Italia, in Brasile. Diciassettesimo figlio, tre mogli, otto figli, Don Masino si definisce un soldato di Cosa Nostra, un semplice esecutore, un uomo d’onore e di patti. Arrestato in Brasile, sottoposto a torture, estradato in Italia, diventa un collaboratore di giustizia, interrogato da Falcone, diventa “il traditore”. Il soldato definisce la mafia un’invenzione giornalistica e rifiuta la definizione di “pentito”. Non è affatto pentito della sua appartenenza a Cosa Nostra, sembra piuttosto un nostalgico della sua versione originaria prima dell’intrusione dei Corleonesi. Cosa Nostra non avrebbe ammesso alcuna violenza su donne e bambini, mentre la nuova versione prevede lo sterminio della “semenza” delle famiglie rivali, senza limiti di età e di sesso.
Anche questo sarebbe emerso dalla collaborazione di Don Masino, compresa la convinzione che lo stato italiano non avesse affatto l’intenzione di combattere la mafia. “Nessuno troverà mai un elenco degli appartenenti a Cosa Nostra, né alcuna ricevuta dei versamenti delle quote. Il che non impedisce che le regole dell’organizzazione siano ferree e universalmente riconosciute”: con queste parole il signor Buscetta presenta la fotografia di quella Cosa Nostra, alla quale sente di appartenere. La regola del crimine non possiede nulla di scritto: l’onore, la parola e il patto del business sono il padre, il figlio e lo spirito santo. Ma se l’onore viene infranto muore il padre, ossia la figura della legge, direbbe Lacan, se la parola viene tradita, si abbandona il figlio e se il patto non si rispetta trionfa lo spirito santo del potere privo di quel limite che qualunque realtà, anche quella del crimine, deve riconoscere.
La confessione di Tommaso Buscetta, interrogato da Giovanni Falcone e raccontato da Marco Bellocchio, è una Lectio Magistralis sulla psicopatologia della criminalità organizzata e sulla criticità storico-politica di quei tempi, laddove gli imperativi categorici kantiani sono una ingenua barzelletta e la presunta ontologia della morale trascendentale un contingente casuale accidente spazio/temporale. Falcone temeva più lo stato che la mafia, e l’aula bunker presso l’Ucciardone, nella quale si svolge il processo con le tigri/imputati in gabbia, e Don Masino, sottoposto a confronto in una teca di vetro come le reliquie di Santa Rosalia, sottolineano la vertigine di volgarità mafiosa e istituzionale dai tratti clamorosamente circensi. Il Don Masino di Bellocchio non è un pentito, pensa al suicidio continuamente, ma si condanna a vivere perché non vuole morire per mano di chi gli ha voltato le spalle ma, soprattutto, ha voltato le spalle a Cosa Nostra. Il suo obiettivo è la vendetta e morirà il 2 Aprile del 2000 nel proprio letto dopo aver passato una notte vestito da cecchino sul terrazzo della sua casa di Miami. Cosa nostra ha il suo DNA ed è quello del possessivo plurale; i corleonesi intraprendono la faida del possessivo singolare e questo deve essere vendicato da Tommaso Buscetta. Mentre per l’integralismo familiare di Riina Don Masino è un immorale.
Un doppiaggio rigorosamente siciliano per il protagonista, assolutamente ininfluente per il mercato estero, avrebbe candidato il lungometraggio ad una rigorosa, infallibile, ineccepibile perfezione e realizzazione artistica. Bellocchio duetta con Il Divo di Paolo Sorrentino e gioca una partita indimenticabile: palla fuori, palla dentro, palla al centro. Se la legge non ammette ignoranza, l’ignoranza non ammette la legge: palla al centro.