Thierry Fremaux, direttore del Festival di Cannes, sale sul palco per presentare un emozionato Mario Sesti, regista del documentario Bernardo Bertolucci: no end travelling, un omaggio a un maestro indiscusso del cinema mondiale, con l’affetto e l’occhio incantato di chi gli sarà sempre grato per la sua opera e i suoi insegnamenti. “Bertolucci è l’unico che non potrà vedere questo film, ma credo che si sarà reincarnato in un giovane che già sta vedendo molti film“: con queste parole Mario Sesti accompagna il pubblico alla visione del suo ultimo lavoro, che pianta sin dalle prime battute un tema centrale nella vita di tutti noi, e di un artista in particolare, l’immortalità.
Mentre scorre la scena di un treno che corre sui binari, scena che avrebbe dovuto essere in Novecento, e che non è stata utilizzata – e per questo Bertolucci l’aveva regalata a Sesti (“Il cinema inizia con un treno e io ti regalo l’inizio del cinema“) -, la voce di Mario Sesti racconta della prima volta che Bernardo Bertolucci scoprì di non essere immortale. Aveva 34 anni e stava girando Novecento, quando una malattia lo colpì agli occhi e gli tolse la vista per qualche giorno. Eppure, nonostante la caducità del corpo, attraverso il documentario di Sesti sembra di avere Bernardo Bertolucci ancora tra noi. Dopo alcuni aneddoti e foto, che lo ritraggono con Patti Smith, e con Wim Wenders al MAXXI nel 2014, alla presentazione de Il Sale della Terra, coi suoi amici più grandi che frequentava in gioventù, Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, si apre una vera e propria lezione di cinema e di vita.
Mentre scorrono le immagini delle scene d’amore più famose dei suoi film, Bertolucci racconta di come la macchina da presa debba trovare un suo spazio all’interno della scena d’amore, affinché possa dare verità a qualcosa che anche nella vita è difficile; e poi il suo rapporto d’amore con la Francia, presente nella sua vita da sempre, dal punto di vista culturale, al punto tale che quando a 21 anni, e già faceva film, lo vollero intervistare e lui chiese ai giornalisti, “con l’arroganza dei 21 anni” di fare l’intervista in francese. Quando gli chiesero il perché, lui, innamorato della Nouvelle Vague, rispose: “perché è la lingua del cinema.”
E nel filo conduttore dell’immortalità non si può non parlare del tempo del cinema, un tempo che il cinema piega alle proprie esigenze. Un tempo che si forma grazie all’apporto di tutta la troupe, di cui Bertolucci parla con una dolcezza e un rispetto estremi; c’è una sorta di mistero prima di un’inquadratura e questo mistero si scioglie solo girando la scena e la scena la si gira solo grazie all’apporto corale e alla creatività di tutta la squadra, nessuno escluso.
“Fare cinema è ripetere in modo compulsivo gli stessi gesti. Così come il gesto di un bambino che spia i genitori nella loro intimità.” Nel ripercorrere i suoi momenti di cinema e di vita c’è anche Marco Bellocchio (il cui film in concorso a Cannes, Il Traditore, era in corso di proiezione un paio di piani sotto). Spesso accostati dalla critica, dalla metà degli anni Sessanta, ufficialmente il loro primo incontro risale al 2006. Ma Bertolucci considera Bellocchio una fonte di ispirazione sin dall’inizio: “I pugni in tasca furono una folgorazione per me.”
Non poteva mancare il ricordo su Marlon Brando, di come Bertolucci lo volle a tutti i costi per Ultimo tango a Parigi e da cui Gillo Pontecorvo, che aveva appena girato con Brando, lo mise in guardia. In realtà, Bertolucci ricorda il suo rapporto con Marlon Brando come semplice e senza alcuna tensione. E poi ancora, delle stranezze di Hollywood, come quando lo chiamò Alan Ladd jr, che aveva prodotto con successo il primo Star Wars, e disse a Bertolucci di essere stato appena licenziato dalla casa di produzione; oppure di quando una notte a Roma, dal ghetto a Via del Babuino andò in macchina con Billy Wilder e al volante c’era un’amica di Bertolucci che lavorava alla CGL e che ebbe un botta e risposta con Billy Wilder, degno di uno dei suoi film.
Gli innumerevoli aneddoti e i racconti, che si sciolgono in quasi un’ora di documentario, trasudano dolcezza, quella di un uomo che ha amato ciò che ha fatto, fino alla fine, e quella di chi lo ha ammirato e continua ad ammirarlo e a prendere spunto dai suoi insegnamenti: “Io assorbo, non c’è molta differenza tra me e una spugna“. Ed è proprio questa capacità, di assorbire e fare proprie le cose, piccole e grandi, rispettandole come un dono prezioso, che è, forse, la sua lezione più grande.