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Al gioco del trono si vince o si muore: il finale di serie di GAME OF THRONES

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A voler accontentare tutti si corre il rischio di non accontentare nessuno: probabilmente lo sapevano bene Weiss e Benioff,  quando hanno iniziato la stesura delle stagioni rimanenti del Game Of Thrones senza la “guida” dei libri di Martin. Con la consapevolezza di dove andare a finire (è chiaro che, come in situazioni similari, vedi Lost, fin dall’inizio sia Martin che i due sapevano bene come e dove si sarebbe finiti), era impresa da far tremare i polsi quella di sostituirsi, in un certo senso, al deus ex machina delle avventure di Westerios e decidere come compiere i destini dei personaggi che, nel bene e nel male, hanno accompagnato la crescita di un pubblico sempre più numeroso, hanno influito sull’immaginario pop in maniera considerevole, e si sono impressi nella storia dell’audiovisivo tout court (qua non è solo tv, non è ancora cinema), e tutto questo per ben dieci anni.

Perciò capiamoli, poveri: chiudere una storia talmente imponente era possibile, certo; e anche farlo rimanendo nel giusto mood. Quello che non sarebbe stato prevedibilmente possibile era chiuderla con la stessa incisività, con la stessa maniera labirintica, con lo stesso peso specifico dei caratteri; soprattutto, dovendo fare i conti con la serialità televisiva e le sue regole, i suoi costi, i suoi tempi.

La settima stagione, in origine, sarebbe dovuta essere la conclusiva (così come il futuro, quando e se arriverà, settimo e ultimo libro della saga); il successo mondiale e tutto sommato poco prevedibile ha invece fatto sì che venisse “sdoppiata” in due in corso d’opera, creandone un’ottava con soli sei episodi come mini film che avrebbe chiuso per sempre quest’epopea leggendaria.

Sommate tutti questi fattori, e avrete il risultato di queste ultime, discusse, mai così tanto amate/odiate puntate di Game Of Thrones: mai come prima tanto soggettive nella loro bellezza che risiede solo negli occhi, e nella predisposizione, di chi guarda.

Perché le ultime sei puntate che hanno chiuso Game Of Thrones, da un punto di vista squisitamente critico e televisivo (se non cinematografico, diciamolo pure senza tema di smentita), sono state splendide da vedere: intuizioni visuali magniloquenti, soluzioni visive spregiudicate e affascinanti, una regia sontuosa e monolitica. Senza dire poi dell’apparato narrativo -disgiunto da ogni possibile riflessione di continuità o legittimità letteraria-: a dispetto di quanto il 90% degli spettatori si aspettavano, e nonostante due parentesi (ottime e inevitabili) come The Bells e The Long Night con le loro urla e battaglie frastornanti, l’ottava stagione del Trono di Spade ha avuto un andamento lento, meditativo, disperato nel suo assordante silenzio.

Dialoghi ridotti all’osso, sguardi intensi e visi contratti, lunghe sequenze con nessun dialogo per sottolineare l’approdo del destino. Storie che si chiudono, vite che si interrompono, destini e profezie che si compiono: tutto nel segno di un’espressività fortissima che sfiora, a tratti, l’emozione più pura (l’ultima scena con Drogon è una delle più emozionanti passate sui nostri schermi negli ultimi dieci anni almeno). E un finale di serie con una carrellata prima dei titoli di coda che dà un senso più ampio, forse poco previsto, ma ancora più significativo, all’intera produzione. Perché Game Of Thrones non è stato il racconto di una guerra, e neanche la storia di un regno o la preparazione ad una battaglia tra Bene e Male; no, questa serie così accorata e intelligente, che ha rotto e spezzato più di un argine e confine, è stata la lunga e dolorosa perdita dell’innocenza dei giovani Stark, il loro cammino verso il compiersi delle loro vite, il loro scrutare l’orizzonte degli eventi e dare un orizzonte morale a tutta la loro esistenza, e anche alla fine un po’ alla nostra.

Sansa, Arya, Bran e Jon: i quattro figli (compreso quello illegittimo) di Ned Stark erano stati dispersi nei primissimi episodi della prima stagione, e alla fine negli ultimi dell’ultima si sono ritrovati, si sono riabbracciati, sono ritornati da dove erano partiti con la consapevolezza del dolore della vita in più. In mezzo sangue, urla, un fratello morto, tanti altri morti, battaglie, guerre, oscurità, un inverno che non voleva arrivare e che poi non voleva finire, lotte intestine e fratricide, e soprattutto una regina bianca madre dei draghi. Che dà modo di far fare, ad uno dei protagonisti dell’intera storia, Tyrion Lannister (un fino all’ultimo grandioso Peter Dinklage) uno dei discorsi più accorati e profondi sentiti negli ultimi tempi in tv: dopo aver pianto disperato sulle spoglie dei suoi fratelli incestuosi morti, in risposta alla follia di Danaerys, Tyrion riflette e dà modo di riflettere su quanto siano fumosi, e a volte disturbanti, conturbanti, inquietanti, i concetti di bene e male, di giusto e sbagliato, di buono e cattivo: in fondo, l’esplorazione di questi archetipi etici è stato proprio l’orizzonte morale dell’intera serie, quello cercato e studiato dai quattro protagonisti Stark di sopra. Chi si è mosso per mari e monti (Sansa); chi è passato tra fiamme e ghiaccio (Jon); chi è cambiato profondamente per trovarsi sull’abisso e poi tornare indietro (Arya); e chi è rimasto immobile (Bran). Perchè tanto, ovunque tu sia e qualunque cosa tu faccia, il destino ti trova: l’importante è che non ti trovi impreparato, per prendere le chiavi della propria vita e continuare il cammino.

Perché si, al gioco del trono di vince o si muore.

Ma mentre si gioca, si vive.

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