Di nuovo Victor Hugo è tirato in ballo per descrivere una situazione di marginalità, disperazione e sopraffazione, ambientata, in questo caso, nella periferia parigina, qui nota come nota ‘banlieu’ 93 – ricettacolo di delinquenza, prostituzione e droga -, messa quotidianamente a ferro e fuoco dagli scontri fra polizia violenta e prevaricatrice, bande rivali e ragazzi di strada. Les Miserables, diretto e co-sceneggiato dal documentarista Ladj Ly, al suo primo lungometraggio, si basa su un cortometraggio omonimo dello stesso regista e racconta la dura vita di strada della banlieu, dove non si sa se siano più ‘miserabili’ gli abitanti o i poliziotti che dovrebbero rappresentare la legge.
Un nuovo agente, Stéphane, viene trasferito presso la brigata anti-criminalità di Montfermeil, un gruppo affiatato che lavora da anni nella banlieu ma che, forte del suo ruolo, perpetra, come presto si accorgerà il nuovo arrivato, ogni sorta di prevaricazione gratuita, in particolare su ragazze, ragazzi e bambini. Chris e Gwada, i compagni di pattuglia di Stéphane, usano metodi inutilmente violenti finché un giorno colpiscono un bambino quasi mortalmente e vengono ripresi da un drone guidato da un altro ragazzino amante dei video. Da qui si dipana una trama complessa: da un lato i poliziotti ‘cattivi’ cercano la scheda del drone per farla sparire, dall’altro il poliziotto ‘buono’ tenta di salvare il ragazzo, colpevole di aver rubato un cucciolo di leone al circo locale, anche instaurando un dialogo con le varie anime che compongono il milieu della comunità locale (arabi, zingari, africani, francesi).
Les Miserables è racchiuso tutto in due scene, quella iniziale, dove Parigi è invasa dalle bandiere e dalla gente (in realtà per la vittoria ai Mondiali del 2018) che canta l’inno nazionale, e quella finale, dove i ragazzi si organizzano per vendicarsi dei poliziotti e la loro rabbia esplode senza limiti. La domanda del regista è chiara (forse troppo, quasi didascalica ma efficace): come facciamo a costruire una nazione vera e propria che includa tutte le etnie e le facce di questo Paese? Colpe, riflessioni e prospettive sono lasciate in sospeso. Il film ricorda un’altra opera simile, vista e premiata a Cannes 2011, Polisse di Maïwenn, film forse più autoriale ma meno corale.