Attraversi un periodo di fertilità creativa perché, oltre a essere sul grande schermo e su Netflix con Lo spietato, il nuovo film di Renato De Maria, sei anche nel cast de Il traditore di Marco Bellocchio, in concorso al Festival di Cannes.
Infatti, sono molto contento, perché negli ultimi anni sono riuscito a prendere parte a diversi progetti importanti, soprattutto dal punto di vista della qualità: mi riferisco a Il miracolo e a Il cacciatore, di cui a fine Aprile iniziamo a girare a Palermo la seconda stagione.
A parte quelli appena menzionati, hai avuto modo di lavorare con registi importanti, quali Marco Tullio Giordana, Paolo Sorrentino e, di recente, in una serie internazionale diretta da grandi nomi italiani e stranieri, senza distinguere tra cinema e televisione.
Penso tu intenda Trust, in cui ho avuto modo di lavorare con un altro grande regista che è Emanuele Crialese. Guarda, in realtà io di base non ho mai voluto fare distinzione tra recitazione cinematografica, televisiva e teatrale: per me c’è una buona o una cattiva recitazione, proprio in una visione del mestiere in cui ognuno cerca di dare il meglio che può. Il mezzo può cambiare, la sostanza no.
Entrando nello specifico, Lo spietato ha la particolarità di essere il primo personaggio di finzione da te interpretato, perché negli altri film le tue erano sempre figure realmente esistite. In che modo questo fattore è intervenuto nella preparazione del ruolo?
Anche se affronti un personaggio realmente esistito non puoi effettivamente raccontarlo per quello che è stato perché, di fatto, non sei quella persona. In questo caso, la possibilità è quella di avvicinarlo attraverso lo studio, ma, anche lì, sempre senza esagerare poiché penso sia giusto che attore e regista possano dare anche la propria visione del personaggio. Affrontando un ruolo di finzione puoi avere forse maggiore libertà perché, come mi è capitato ne Lo spietato, non devi attenerti ai paletti derivanti dal fatto di incarnare una persona che anche altri conoscono.

Eccezion fatta per Il miracolo, i tuoi sono sempre uomini vissuti in altre epoche. Questo per te significa lavorare su posture o linguaggi diversi da quelli contemporanei o, in ogni caso, ti concentri sullo studio del copione, prendendoti la libertà di interpretare questi aspetti secondo la tua ispirazione?
Questo no. Se è vero che ho fatto personaggi di un’altra epoca si trattava comunque di anni (ottanta) vicini ai nostri. In Antonia, invece, c’è stato un lavoro maniacale da parte mia e di Ferdinando (Cito Filomarino, regista del film, ndr), corroborato anche dalla ricerca antropologica legata al periodo storico in questione (gli inizi del Novecento, ndr). Remo Cantone come filosofo è sempre stato uno un po’ stravagante e, quindi, avevo la licenza di andare oltre l’obbligo di rispettare il modo comune di vestirsi e di comportarsi. Nel film lo si vede sempre senza cravatta e con la camicia aperta, il che per un uomo del suo periodo era una cosa anomala. Comunque, si, credo che sia fondamentale un lavoro totale sul corpo, basato sul personaggio che si va a raccontare, perché chiaramente la figura fisica a volte racconta molto più delle parole. A teatro, per esempio, questo è un aspetto fondamentale.
Avendo in mente i tuoi lavori, posso dire che in Antonia arrivi quasi a trasfigurarti, assumendo una fisiognomica e un body language completamente diversi da quelli poi utilizzata per i caratteri successivi.
Io ho un estremo rispetto delle storie e dei personaggi che devo affrontare, quindi mi piace entrarvi fino in fondo ed essere sempre diverso. I miei amici mi prendono in giro perché quando usciamo la gente non mi riconosce mai, poiché in ogni serie sono sempre diverso.
Da spettatore, infatti, non ricordo tic e gestualità capaci di sopravvivere all’alternarsi dei personaggi e, dunque, in grado di renderti identificabile al di là della maschera.
Guarda, siccome sono molto intransigente con me stesso quando mi rivedo, ovviamente riconosco dei modi più tipici di altri, e tra me e me dico che la prossima occasione sarà quella buona per evitare di ripeterli. D’altronde, credo che il nostro lavoro sia proprio quello di essere ogni volta diversi. Mi affascina molto poter esserlo anche fisicamente: mi è capitato di perdere o prendere dei chili e penso che queste trasformazioni siano uno degli aspetti più belli e interessanti del nostro lavoro, la parte creativa dell’attore.
Quindi, nel tuo metodo utilizzi una full immersion secondo le regole dell’Actors Studio, e cioè con un’ immedesimazione anche fisica del personaggio?
Guarda, ho avuto la fortuna di frequentare la scuola del Teatro Stabile di Genova e lì ci hanno insegnato a capire bene ciò che dice e che fa il personaggio, e in tutto questo c’è sempre qualcosa che deriva dal corpo e dall’aspetto fisico. A chi gli chiedeva il segreto delle sue performance, Dustin Hoffman una volta rispose che per lui tutto stava nell’imparare bene le battute, e cioè qual è la linea del personaggio, quali sono i suoi obiettivi in ogni scena e quello generale dall’inizio alla fine del percorso che raccontiamo attraverso una serie o il film. Questo è quello che mi guida. Poi, è ovvio, mi piace sperimentare e fare ricerche sui vari metodi, però la cosa a cui tengo è quella di essere sempre credibile.

Il film di De Maria punta molto sul divismo di Scamarcio, con ciò che ne consegue in termini di occupazione della scena e del monopolio dei primi piani. Da qui la responsabilità di supportare il protagonista e, nel contempo, di dare spessore a Slim, il tuo personaggio.
L’esperienza de Lo spietato è stata straordinaria soprattutto come gioco di squadra, cosa che credo ci debba essere sempre nel lavoro che facciamo. Chiaramente il mio e quello di Alessandro (Tedeschi, ndr) sono ruoli di supporto; in termini calcistici siamo i mediani di spinta che poi devono far segnare l’attaccante. È giusto che sia così, ma ti posso dire che di divismo non ce n’è stato da parte di nessuno, e il fatto che ognuno di noi era sull’altro e per l’altro è stata la chiave di volta per rendere al meglio le nostre interpretazioni. Tutti e tre abbiamo scoperto le nostre carte e abbiamo giocato insieme, e questa è stata una cosa bellissima. Ci sono molti momenti del film che sono frutto di improvvisazione, di costruzioni che abbiamo fatto insieme senza che nessuno volesse sopraffare l’altro per via del suo ruolo o per avere un’esperienza superiore agli altri. Il divertimento nel girare i film è derivato proprio dal voler giocare di squadra per il bene del risultato.
Come si lavora quando devi ottimizzare i minuti di visibilità che hai a disposizione?
Quello che ci ha aiutato è stata una preparazione molto consolidata. Sapevamo di non avere molto tempo, perché il film è stato girato in sei settimane, facendo dei sacrifici rispetto a diversi tagli che sono stati inferti alla sceneggiatura. Dalla nostra avevamo un’idea chiara di cosa dovevamo fare, che ci veniva prima di tutto da Renato (De Maria, il regista del film, ndr), il quale ci ha dato la libertà creativa di costruire i personaggi e di proporgli il nostro punto di vista, per cui, arrivati sul set, anche non avendo molto tempo a disposizione, eravamo in grado di lavorare sulle sfumature e sui dettagli, e quando succede è sempre questione di preparazione. Tu sai esattamente cosa vuoi raccontare di quel personaggio, dove va a finire e, allora, sul set arrivi preparato e con la possibilità di proporre in diretta eventuali improvvisazioni. In questo Renato era totalmente aperto, permettendoci di costruire i personaggi insieme a lui.
Se la fonte principale de Lo spietato è il poliziottesco, forma e citazioni rimandano a certo cinema di Scorsese: da Quei bravi ragazzi a The Wolf of Wall Street, senza dimenticare lo Scarface depalmiano. Mi puoi confermare questi riferimenti? E poi ti chiedo: nella proposta del tuo personaggio hai messo qualcosa di loro?
Lo spietato è un omaggio da parte di Renato al poliziottesco italiano, genere che, tra virgolette, abbiamo esportato in tutto il mondo, basti pensar a quanto Tarantino lo abbia preso e fatto suo. Renato ha però aggiunto che nella sua regia ci sarebbero stati dei volontari riferimenti al cinema di Scorsese. La scena dove io rompo il parabrezza della macchina è una chiara citazione de Il padrino. Se uno vede il film potrebbe pensare che si è trattato di una copiatura, ma così non è perché i molti riferimenti sono stati resi volutamente scoperti, in modo che si capisse l’omaggio al genere americano in questione. In tal senso, per il personaggio di Slim Renato mi ha detto di prendere ispirazione dal Joe Pesci di Goodfellas e di Casinò, per poi presentargli la mia versione. Avendo poco tempo a disposizione non si aveva molto spazio per approfondire tutti gli aspetti del caso, perché poi il film racconta la storia di Santo Russo che è il protagonista. Sia io che gli altri ci siamo rivisti tutti i film di quel filone e come lavoro è stato un autentico godimento doverlo fare.
Anche i toni omaggiano il cinema di cui abbiamo appena detto.
Renato ci ha detto che eravamo in una linea di confine tra fumettistico e grottesco in cui non dovevamo mai ricadere nella macchietta. Non era nemmeno semplice dosare la gamma espressiva, così nel girare era sempre pronto a fermarci quando rischiavamo di sorpassare gli estremi.

Una costante delle tue performance, e quello che più mi è rimasto di esse, è che al di là dei personaggi interpretati riesci comunque a mantenere un volto pulito, nel senso che nella tua espressione si legge sempre una meraviglia e una fanciullezza primigenie. Non so se ti riconosci in questa descrizione?
Intanto, mi fa piacere e poi mi viene in mente una foto che serve a far capire come ho iniziato. Ho sempre voluto recitare, ma ho avuto la fortuna di frequentare una scuola per l’infanzia che curava molto l’aspetto del teatro e dell’arte. Nello scatto ci sono io all’età di cinque anni sul palco di un teatro che sto facendo uno spettacolo, e mi si vede con un luce di gioia negli occhi. Quel luccichio è sempre qualcosa che cerco di utilizzare e dal quale attingo nei momenti di frustrazione a causa di un mestiere in cui si sta sempre sulle montagne russe. Cerco ogni volta di farmi guidare dalla purezza di quell’ingenuità che mi porta a non giudicare il personaggio che sto andando a raccontare. Quando il bambino dice “giochiamo a fare i medici o i meccanici”: lo fa credendo davvero di diventarlo. Ecco, la dimensione del nostro lavoro è la stessa di quando, da piccoli, giocavano a fare finta di essere un’altra persona.
Molti attori italiani si lamentano del fatto che spesso sono chiamati a lavorare tra mille difficoltà, del poco tempo a disposizione per prepararsi. Al contrario di ciò che succede nel cinema americano in cui, invece, la fase di preparazione è lunga e approfondita. Qual è la tua esperienza?
Dovrei dirti che non c’è mai il tempo necessario, quindi bisogna fare di necessità virtù. Il nostro lavoro ci impone di essere dei liquidi che si adattano al contenuto nel quale si trovano in quel momento. Quindi, bisogna ottimizzare il tempo e le energie per ottenere il massimo. Cercare di fare il meglio con quello che si ha. Recitare talvolta è un mestiere precario e pieno di imprevisti. Bisogna rimanere sempre in ascolto per far si che tutto ciò non danneggi il risultato finale, ma che anzi possa entrarvi rendendolo ancora migliore. A teatro questo è fondamentale. Se respingi le difficoltà è finita, se le accogli alzi la qualità della tua interpretazione.
L’attore è l’unico, tra chi partecipa alla realizzazione di un film, a stare davanti alla macchina da presa, assumendo su di sé le responsabilità di finalizzare il lavoro del resto della troupe. Come si fa a difendersi da questa precarietà artistica, cercando di rimanere psicologicamente equilibrati?
È un ottima domanda, per la quale ognuno ha la sua risposta. Penso che chi decide di fare questo lavoro sa benissimo a cosa va incontro. Guardandolo da fuori, soprattutto i giovani credono si tratti di una professione super esaltante, legata agli aspetti di visibilità e popolarità. Ecco, se uno decide di farlo al meglio, non sono quelli gli scopi. Si tratta di un lavoro di sacrifici e di fragilità perché poi, chi più chi meno, le conseguenze di ciò che succede sul set le porti a a casa. A quel punto, le affronti lavorando su te stesso, cosa importante come quello che si fa davanti alla macchina da presa. Ognuno ha il suo metodo, ma bisogna sempre ricordarsi che stiamo giocando a un bel gioco che, però, facciamo seriamente.
Concludiamo con l’attesissimo film di Bellocchio. Nel film tu sei Giuseppe Greco, uno dei killer più spietati di Cosa nostra. Com’è stato essere sul set di un autore così importante ?
Lui mi vide in Lea di Marco Tullio Giordana e mi ha chiamato. Lui, come Marco, sono registi che tengono molto all’aspetto umano delle persone con cui devono lavorare, quindi Bellocchio ha fatto degli incontri conoscitivi prima di passare ai veri e propri provini. Nel mio caso non ne ho fatti. Mi ricordo dell’incontro e della mia emozione, e di quando, dopo la chiacchierata, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto lavorare insieme a me. Puoi immaginare il mio stupore, ma è andata proprio così. Sul set sono stato come una spugna, consapevole di recitare con attori del calibro di Favino e con un maestro come Bellocchio.
Avendolo osservato da vicino, ti chiedo di tratteggiarmi la caratteristica che più ti ha colpito di lui?
È molto preciso, va nel dettaglio di ogni singola cosa, cercando il più possibile la perfezione e, soprattutto, la fiducia nell’attore. Senti che ti affida la parte, intervenendo solo quando c’è da farlo, proprio per quegli aspetti umani che derivano dalla scelta iniziale, quella che si compie dall’incontro prima del provino. È un cinema artigianale e giocoso, quello di cui si parlava prima e che a me piace tanto.