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Takara – La notte che ho nuotato: una giornata particolare del piccolo Takara, odissea poetica e delicatissima

I registi Damien Manivel e Kohei Igarashi hanno voluto rendere il fascino dei paesaggi e dell’infanzia, con una narrazione originale, singolare, e insieme delicatissima

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Un bambino di appena sei anni, solo, che salta la scuola e vaga dal villaggio alla città (siamo in Giappone), sprofondando con i suoi stivaletti nella neve, in silenzio, per ottanta minuti. La piccola odissea di un giorno, anzi di una notte, un giorno e poi ancora una notte. Lui, nella realtà, si chiama Takara Kogawa, e dà il titolo al film, Takara – La notte che ho nuotato. Una narrazione originale, singolare, e insieme delicatissima. Poesia e grazia, nel suo andare alla ricerca del padre che lavora al mercato del pesce e va via di casa quando è ancora buio. Immaginiamo sia così per il disegno che Takara porta con sé nello zaino azzurro, troppo pesante per lui, tanto da sbilanciarlo nei movimenti e buttarlo all’indietro quando tira una palla di neve; è così tenera questa scena che ci si commuove o si ride con l’ingenuità ritrovata del cinema muto. Il foglio che Takara porta religiosamente con sé raffigura un pesce e altri animali marini che ha disegnato durante la notte, insonne. L’esordio del film, infatti, lo vede alzarsi dal letto più volte, dopo che il padre è andato al lavoro. È notte, ma gli occhioni non vogliono chiudersi: mangia, gioca, accarezza il cane, fotografa i suoi giocattoli, guarda la neve che scende dalla finestra, torna a letto per poi rialzarsi.
In questi momenti, e anche dopo, spesso i tempi della storia e quelli del racconto coincidono. Mentre il nostro bambino mangia i biscotti nelle ombre notturne di casa o quando sbuccia un mandarino sul candore della neve, viene da pensare a Il miracolo della presenza mentale di Thich Nhat Hanh: “Il mandarino che Nandabala mi ha offerto aveva nove spicchi. Li ho messi in bocca uno per uno in consapevolezza e ho sentito quanto sono splendidi e preziosi. Se il mandarino è reale, anche chi lo mangia è reale. Ecco cosa significa mangiare un mandarino con consapevolezza”.

Chissà se i due registi, il francese Damien Manivel e il giapponese Kohei Igarashi, hanno voluto davvero suggerirci situazioni di contatto con il proprio Sé. Volevano rendere il fascino per i paesaggi innevati (noi una neve così immacolata non la vediamo mai!) e quello dell’infanzia. Ci sono riusciti, perché l’incanto di entrambi si avverte e rapisce; quello del bambino che sgambetta e dei panorami che conquistano. In una scena, la neve è parecchio alta e Takara le cammina dietro; ci viene mostrata la sua testolina coi capelli neri che procede da sinistra a destra, il corpo nascosto dal cumulo bianco brillante. Certo che i film orientali sui bambini sanno davvero emozionare. Sono passati vent’anni da Le estati di Kikujiro del giapponese Takeshi Kitano (anche lì il bambino, Masao, camminava e correva con uno zainetto azzurro) e dal cinese Non uno di meno di Zhang Yimou, ma quei visi li ricordiamo ancora. E come dimenticare il faccino di Qiang ne La guerra dei fiori rossi di Zhang Yuan? Erano storie di relazioni, le loro, con adulti e coetanei; qui tocca a noi intuirle, perché Takara è quasi sempre solo. Mentre sale sul treno, entra in un centro commerciale, esita ad attraversare la strada per il traffico, arrivato in città. Nessuno sembra far caso a lui; noi sì, ammaliati dalle riprese dei bellissimi primi piani, e dei campi che variano per rispettare il tempo dell’emozione, della sensazione di camminargli accanto. Il suo vagare è interrotto da brevi e frequenti pause di gioco, in cui sembra dimenticare la destinazione, ma poi riprende il percorso. Muto. Solo il suono dei passi sul ghiaccio, degli uccelli, dei cani che abbaiano, il treno in lontananza. Qualche timida nota da Le quattro stagioni di Vivaldi, sullo sfondo, all’inizio del film, e sempre la stessa musica a volume più alto quando l’avventura di Takara sta quasi per terminare.

Ci piacciono i tempi lunghi e i silenzi quando sanno essere carichi di aspettative. Mica che succeda chissà che, anzi, le svolte qui sarebbero del tutto incoerenti. Vogliamo piuttosto che la magia di questo quotidiano non venga interrotta, che la profonda malinconia rimanga. “Il film è una combinazione di umorismo e malinconia”, dicono i registi. “Abbiamo cercato di pensare sempre a Takara come a un piccolo Buster Keaton giapponese, di capire la sua realtà quotidiana, la sua immaginazione, parlato e giocato con lui a lungo. Attraverso di lui abbiamo riscoperto la nostra stessa infanzia”. Anche lo spettatore, sintonizzato su un identico desiderio, riesce a emozionarsi e apprezzare una storia così coraggiosa, nella sua estrema semplicità.

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