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Film da Vedere

Omicidio in diretta di Brian De Palma con Nicolas Cage

Un puzzle visivamente avvolgente e sconvolgente, aperto da un piano sequenza di dodici minuti con cui De Palma, alla maniera dell'Antonioni di Blow-up, segnala l'insufficienza dello sguardo umano che necessita dell'ausilio della tecnica. Un’opera profondamente auto-riflessiva sulla capacità di presa del soggetto rispetto alla realtà

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Omicidio in diretta (Snake Eyes), un film del 1998 diretto da Brian De Palma e interpretato da Nicolas Cage, Gary Sinise, Carla Gugino, Luis Guzmán, Kevin Dunn, John Heard, Stan Shaw. Il film ha avuto un budget di 73 milioni di dollari e ha incassato negli USA 56 milioni di dollari, 2 milioni di sterline nel Regno Unito, 5,5 miliardi di lire in Italia (con 500 000 presenze), 350 000 presenze in Germania. Ha inoltre ricavato 25 milioni di dollari dai noleggi negli USA. La seconda scena del film è un unico piano sequenza di una durata di quasi dieci minuti in un palazzetto dello sport nel quale la macchina da presa segue costantemente Nicolas Cage; è stato il piano sequenza con più comparse e personaggi che interagiscono mai realizzato fino a quel momento.

Sinossi
Rick Santoro, un detective corrotto di Atlantic City, sospetta che dietro l’assassinio del Ministro della Difesa durante un incontro di pugilato ci sia una cospirazione. Julia Costello è a conoscenza della cospirazione e chiede protezione a Santoro, confermando i suoi sospetti.

Il film si apre con un vertiginoso piano-sequenza in steady-cam di dodici minuti. O meglio, un finto piano-sequenza in cui i raccordi sono invisibili sul modello di Nodo alla gola (Rope, 1948) di Alfred Hitchcock. La scena è introdotta dal volto di una reporter televisiva che annuncia l’imminenza di una forte precipitazione pronta ad abbattersi sul casinò Powell Millennium1 di Atlantic City, dove sta per svolgersi un incontro di pugilato valevole per il titolo dei Pesi Massimi. Un movimento di macchina, però, permette allo spettatore di scoprire che l’immagine d’apertura è quella di un monitor televisivo (un codice, un segno, ma anche un artificio tecnico). Una panoramica verticale con l’asse della macchina da presa inclinato vero sinistra, poi, presenta il protagonista del film, il cinico e corrotto poliziotto Ricky Santoro: un transfert, quindi, dallo sguardo incorporeo della tecnica a quello del soggetto umano. Il prosieguo della sequenza si configura come un perfetto overture che, spazialmente, segue Rick aggirarsi dietro le quinte del casinò e lo accompagna fino alla prima fila da cui assiste, in qualità di addetto alla sicurezza, all’incontro di boxe. La macchina da presa s’incarica di seguire il protagonista lungo tutto il percorso mostrandone contemporaneamente il campo e il controcampo in regime di continuità. Eppure, con il procedere del dispositivo diegetico, si scoprirà che davanti agli occhi del poliziotto sono sfilati tutti gli indizi necessari a svelare un complotto che porterà, in conclusione di sequenza, all’omicidio del Ministro della Difesa, in procinto di votare contro l’approvazione di una legge militare. Santoro, però, non ha saputo vederli. È quindi su una paradossale declinazione del principio di negazione alla vista che si gioca la partita, non solo dell’incipit (in fondo, nei dodici minuti d’apertura non si vede mai il ring dove si combatte il match) ma anche del film stesso (che di quest’apertura è una specie di sviluppo concentrico e quasi frattale). Come già accadeva al Jack Terry di Blow Out (1981), Ricky Santoro si trova costretto a ricomporre anamnesticamente i segni apparsi davanti ai suoi occhi, frazionati e sfuggenti, e a rimodellarli in un nuovo sistema coerente. Per farlo, entrambi si avvalgono di strumenti tecnologici come organi artificiali che rafforzano (e talvolta surrogano) lo sguardo. Ogni visione, anche la più nitida, contiene infatti un grado più o meno decisivo di occultamento. L’occhio umano non è onniveggente, non può mettere tutto a fuoco. L’atto del vedere, quindi, è congenitamente frammentario, imperfetto, parziale. Un leitmotiv che informa tutta la filmografia depalmiana già ab origine – si vedano i casi di Ciao America (Greetings, 1968) e Murder à la Mod (1968) – e che qui si rilancia in una struttura teorica che verrà poi sublimata dal di nove anni posteriore Redacted (2007). De Palma mutua dal maestro Hitchcock l’espediente del «finto flashback» (ovvero di un flashback che mette in scena, dal punto di vista diegetico, una simulazione di verità e non la verità stessa) utilizzato in Paura e palcoscenico (Stage Fright, 1950). Lo sguardo, la memoria, la capacità di ricostruzione analitica ricevono dunque l’ennesimo scacco. Che cosa perciò permetterà a Santoro di riannodare i fili e squarciare il velo della menzogna e dell’inganno? La risposta, ovviamente, non può che essere una: la tecnica. Da questo punto di vista, Omicidio in diretta stringe con Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni un rapporto molto più profondo di quello, più superficiale e non così stringente, istituito da Blow Out. Nel capolavoro del cineasta ferrarese, il fotografo interpretato da David Hemmings scopriva le tracce di un (possibile) omicidio solo ricorrendo all’ingrandimento di alcuni scatti da lui effettuati in un parco pubblico londinese. Questi indizi, però, erano totalmente invisibili all’occhio nudo, irraggiungibili dalla pupilla e dall’osservatore che aveva scelto di soffermare il proprio sguardo (potenziato dal teleobiettivo spinto della macchina fotografica) sui soggetti fotografati. La tecnica, ancora una volta come deus ex machina, interveniva conseguentemente a illuminare nuovamente lo sguardo del protagonista, supplendo alla cecità metaforica dello stesso. Antonioni, però, in piena modernità, metteva ancora al centro del discorso il soggetto e il suo senso di smarrimento e spaesamento che determina un grado ulteriore di ambiguità: la verità perciò rimaneva ancora sfuggente, la visibilità potenziata generava un’ulteriore stratificazione del senso. De Palma, invece, inscrive il suo film in uno scenario storico-antropologico in cui «la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi.» (Umberto Galimberti). In particolare, in un mondo segnato da una profonda mutazione antropologica, ovvero un’epoca di autodeterminazione della tecnica di cui «non siamo più in grado di seguirne la trama […], (in cui) si riduce la nostra capacità di percepire i processi, gli effetti, gli esiti e, se lo pretendessimo, gli scopi, di cui siamo parti e condizioni». Proprio questa prepotente epifania della tecnica e la conseguente attestazione dei limiti dello sguardo è il vettore più interessante di un’opera profondamente auto-riflessiva (non solo sul mezzo, ma anche sulla stessa filmografia depalmiana) come Omicidio in diretta. A ben vedere, si tratta di un percorso teorico già ampiamente anticipato da Le due sorelle (Sisters, 1973) che ancora una volta si dimostra come film-testo fondamentale e orbitante intorno a buona parte dell’opera del regista.

  • Anno: 1998
  • Durata: 99'
  • Genere: Thriller
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Brian De Palma

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