Timbuktu, il film di Abderrahmane Sissako vincitore di sette premi César
Un cumulo di storie e personaggi, lirismo dolente e umorismo vignettistico, realismo scioccante e simbolismo elementare: Sissako, con la fotografia del Sofian El Fani di La vita di Adele, restituisce le forme con cui si dispiega la legge ottusa dell’integralismo. Sette premi César e Premio della Giuria Ecumenica al Festival di Cannes del 2014
Timbuktu, un film del 2014 diretto dal regista mauritano Abderrahmane Sissako. Il film, che ha concorso per la Palma d’oro al Festival di Cannes 2014, dove ha vinto il Premio della Giuria Ecumenica e il François Chalais Prize, ha ricevuto la candidatura all’Oscar al miglior film straniero nell’ambito dei Premi Oscar 2015. Timbuktu si è anche aggiudicato sette premi César (Miglior film, Miglior regista a Abderrahmane Sissako, Migliore sceneggiatura originale a Abderrahmane Sissako e Kessen Tall, Migliore fotografia a Sofian El Fani, Miglior montaggio a Nadia Ben Rachid, Miglior sonoro a Philippe Welsh, Roman Dymny e Thierry Delor, Migliore colonna sonora a Amine Bouhafa). Abderrahmane Sissako è, con Ousmane Sembène, Souleymane Cissé, Idrissa Ouedraogo e Djibril Diop Mambety, uno dei pochi registi dell’Africa subsahariana ad aver ottenuto notorietà internazionale. Sissako è anche consigliere culturale del capo di Stato mauritano Mohamed Ould Abdel Aziz e presidente di Ciné Fabrique, scuola di cinema e multimedia a Lione. Con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Hichem Yacoubi, Kettly Noël, Fatoumata Diawara.
Sinossi A Timbuktu e nelle zone circostanti domina la polizia islamica, impegnata in una jihad in cui divieto si aggiunge a divieto. Sotto un’ampia tenda, Kidane, Satima e la figlia Toya, una tranquilla famiglia che vive sulle dune del deserto, possono solo cogliere dei segnali di quanto accade in città. Il giorno in cui il loro pastore dodicenne si lascia sfuggire la mucca preferita, che distrugge le reti di un pescatore nel fiume, tutto però muterà tragicamente.
La recensionedi Taxi Drivers (Elisabetta Colla)
Mistero e tragedia sembrano essere parte integrante dello sconfinato territorio del Mali, come ben evocato dal drammatico Timbuktu, ultimo lavoro del regista Abderrhamane Sissako, ambientato nell’antica e affascinante città maliana simbolicamente scelta come titolo dell’opera. Girato in Mauritania, patria del regista, il film già presentato al Festival di Cannes 2014, è oggi meritatamente candidato agli Oscar 2015 come miglior opera in lingua straniera. Sissako descrive con grande maestria cinematografica, narrativa ed estetica, un mondo complesso e i personaggi che lo abitano, mentre i venti tragici del cambiamento incedono a grandi passi: dal tollerante passato (quello del convivere pacifico fra etnie Bambara, Peul e Tuareg – i cosiddetti uomini blu, pur pervasi da sussulti di libertà e ribellione) a un presente sempre più integralista, dove l’insediarsi dei fondamentalisti islamici ha lentamente imposto la ‘sharia’ in vaste aree lungo il confine algerino, producendo episodi spaventosi come la pubblica lapidazione di una coppia di amanti, perché non sposati, uno dei fatti realmente accaduti (nella cittadina di Aguelhok) da cui il film di Sissako ha tratto iniziale ispirazione.
Solo il tocco di un grande regista poteva descrivere in maniera apparentemente leggera, a tratti ironica, nonostante l’enormità degli esiti, l’imperizia e l’approssimazione dei miliziani ‘stranieri’ che, a bordo di una moto sgangherata, promulgano improbabili divieti col megafono: le donne devono indossare calze e guanti anche se vendono e maneggiano pesce al mercato, gli uomini possono portare solo calzoni arrotolati anche se troppo leggeri per restare piegati, non si può giocare a calcio (splendida la scena in cui, per aggirare il folle divieto, un gruppetto di ragazzi inscenano in un campetto polveroso una partita senza pallone, surreale ma non per questo meno avvincente), donne e uomini non possono fare musica insieme e tanto meno avere relazioni di sorta. Altrettanta ironia appare nella scena in cui un giovane ‘ex-rapper’ – incitato da un anziano che produce un video ad uso formativo per altri adepti – cerca di spiegare davanti a una telecamera, senza riuscirci, perché ha abbandonato la sua musica per dedicarsi alla jihad. Giovani reclute, sembra dire il regista, che abbracciano l’integralismo per ‘sentirsi qualcuno’, per ottenere denaro, potere e benefici, per ignoranza e plagio, e non certo per vera convinzione. A nulla valgono gli insegnamenti dei veri religiosi e del corano, come nella sequenza in cui il saggio imam scaccia della moschea i miliziani armati che pretendono di dettar legge anche in un luogo consacrato alla preghiera, alla meditazione e alla pace, perché i fondamentalisti passano dalla goffaggine alla crudeltà senza mezzi termini, senza alcuna consapevolezza di macchiarsi di crimini gravissimi contro l’umanità.
Le meraviglie naturali descritte mirabilmente da Sissoko (i giorni e le notti africane, i colori della terra, delle luci sull’acqua e dei mantelli tuareg) diventano, in questo clima di sospetto e terrore, teatro di efferati eventi nella città e nei dintorni di Timbuktu, come l’uccisione inevitabile del pescatore Amadou da parte del pacifico allevatore nomade Kidane, padre di una bambina, unico a voler rimanere nella sua terra contro la volontà dell’amatissima moglie e della sua gente già emigrata: lui che parla solo ‘tamashek’, la lingua dei tuareg, non convincerà della propria innocenza gli uomini in nero che si ergono a giudici finali di conflitti ancestrali in una terra arida e dura. La scena iniziale del film prelude simbolicamente alla tragedia di popolazioni inermi alla mercé di gente senza scrupoli: la corsa disperata di una giovane gazzella nel deserto, che sa di essere cacciata, mentre uomini in ‘pick-up’ avvolti negli ‘chech’ cercano di sfiancare la preda per catturarla più facilmente fino al risuonare nell’aria di spari secchi. L’innocenza è la prima vittima di una caccia brutale, di una violenza indotta da genti provenienti da luoghi lontani (si tratta di un gruppo islamista attivo nel nord dell’Algeria e nelle zone desertiche tra Algeria, Mali e Mauritania, con base nella regione maliana che si estende sulla riva sinistra del fiume Niger, tra Timbuktu e Kidal), di una follia inattesa che dà vita a sgomento ma anche a una resistenza e a una fierezza che le frustate e la morte non potranno piegare per sempre, mentre il fiume Niger continua il suo scorrere lento e la musica di Ali Farka Touré e dei suoi eredi, il ‘desert blues’, suona come una marcia funebre.