In Italia noto anche come Il pane e le rose, Bread and Roses è un film del 2000 diretto da Ken Loach, con Pilár Padilla, Adrien Brody, Elpidia Carillo, Jack McGee, George Lopez. È considerato il primo film americano del regista, ma più precisamente è il suo primo film statunitense, in quanto l’America Latina era già apparsa nei suoi lavori. Il tema della precarietà del lavoro – già affrontato in Riff Raff – qui si inserisce su quello dell’emigrazione clandestina e della dignità umana, nella migliore tradizione del regista britannico che in questa pellicola dà spazio anche a momenti di pura commedia. Fu presentato in concorso al 53º Festival di Cannes. Pane e rose (traduzione di Bread and Roses) è uno slogan adottato in varie epoche e occasioni dagli operai in sciopero e ha origine da una frase di un discorso della leader femminista Rose Schneiderman che ispirò poi una poesia di James Oppenheim pubblicata nel 1911, intitolata appunto Bread and Roses. Nel film il movimento si serve di un party hollywoodiano per ottenere risonanza mediatica. Molte le star del cinema presenti, nessuna delle quali accreditata, che appaiono anche solo di sfuggita, tra questi: Tim Roth, Ron Perlman, William Atherton, Vanessa Angel, Benicio del Toro, Oded Fehr, Chris Penn, Robin Tunney e Stephanie Zimbalist.
Sinossi
Alcuni immigrati sono stati reclutati da una ditta di pulizie e puliscono, silenziosi e quasi invisibili, gli uffici di un palazzone californiano. Da Cuernavaca, con altri clandestini, arriva Maya, sorella minore di Rosa, una degli operai sottopagati, non tutelati, sfruttati, spaventati e ricattati dal caporale che supervisiona il lavoro. Poi per fortuna un sindacalista smuove le acque.
Nel 1912 il titolo di questo lungometraggio di Ken Loach non appariva sui grandi schermi, ma su dei manifesti. Parole scritte da operai tessili stanchi di dover dedicare la loro vita esclusivamente sul lavoro. Pane e rose, il minimo vitale e la bellezza, entrambi necessari per il benessere umano. Non abbiamo, però, di fronte un film storico: Loach attraversa per la prima volta i confini statunitensi, e non solo in ambito registico, ma tramite degli immigrati, che accompagnati da sciacalli senza cuore (e una macchina da presa frenetica e piena di spasmodici scossoni) passano le frontiere per raggiungere il sogno americano. Ma nell’immaginazione di questi stranieri non vi è desiderio di gloria o successo, essi sono degli umili; tanti di loro vogliono solo abbracciare la propria famiglia o avere la possibilità di un lavoro che gli permetta di sopravvivere decentemente. Sembra l’inizio di un pesante dramma, ma Loach dopo i primi dieci minuti passa a un’atmosfera più leggera, a tratti persino comica, tipica del regista: spesso vi è tempo per delle leggere risate, ben accette e gradite, ma il cineasta britannico resta costantemente schierato a fianco delle povere persone licenziate senza un motivo, costrette a subire angherie e soprusi di multinazionali, che le sfruttano dato il loro essere clandestini. Maya non ci sta, ha trovato un lavoro, ma vuole combattere per l’uguaglianza e aiutare i suoi compagni. Non ha lo stesso pensiero della sorella e di molti altri (È preferibile galleggiare in un mare di merda, anziché combattere e affogare“), pensa al futuro e alla dignità umana, qui calpestata da veri e propri tiranni. Il licenziamento è difatti visto similmente a una condanna a morte o a un esilio, un pericolo incombente e quasi mortale, capace di far precipitare una povera ragazzina nel furto, pur di aiutare coloro cui vuole bene.
La regia di Loach è matura, sapiente, procede spensierata per quasi tutto il film, ma ogni tanto innesta delle scene dure e significative, a volte spietate. Quelle di una realtà difficile, che sono un pugno nello stomaco per qualsiasi pubblico: non solo licenziamenti o tentati abusi, ma persino una vita rovinata a causa di un sistema immorale e disumano, che costringe una povera ragazza a raggiungere bassezze inconcepibili, volte al sostegno della sua famiglia. Questa è forse la migliore scena di tutta la pellicola. Loach quando serve è duro e riesce benissimo nel suo ammirevole intento di catturare nel dettaglio i problemi di gente ormai annichilita dallo sfruttamento. Paul Laverty nelle sceneggiature come al solito non delude. Lo stretto collaboratore di Loach crea dialoghi non solo emozionanti, ma che colgono il cuore del problema della situazione, affrontando ampiamente tutti i disagi di questa working-class senza un briciolo di autostima o di diritti inalienabili per l’uomo (e non alieni, tanto per citare il film). Anche fotografia e colonna sonora sono ben eseguite: niente di ricercato, la leggerezza e spensieratezza di Loach è presente anche in esse.