Conversation

I fratelli Sisters: conversazione con Jacques Audiard

Leone d’argento per la miglior Regia alla 75esima Mostra di Venezia, Jacques Audiard conferma la splendida anomalia del suo cinema, continuando a raccontare di figure paterne tiranniche, di famiglie da ricostruire e della violenza come costante regolatrice dei rapporti umani. Parlare de I fratelli Sisters con il grande autore francese è stata l’occasione per fare il punto sul suo modo di essere regista

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Hai dichiarato più volte di non essere un amante del western, per cui ti chiedo come sei arrivato a fare I fratelli Sisters.

Questo progetto è nato per volontà di John C. Reilly che mi ha incontrato al Festival di Toronto proponendomi un adattamento dal libro di Patrick de Witt pubblicato in Francia. Stiamo parlando di un’opera che se avessi letto per conto mio mi sarebbe piaciuta molto come testo scritto, ma, in quanto tale, avrei messo da parte, perché come western sarebbe stato un progetto non adatto alle mie corde. Diciamo, quindi, che è quasi un film su commissione voluto da un attore, Reilly, desideroso di interpretare un grande ruolo da protagonista dopo tante parti di secondo piano.

L’impressione è quella che tu abbia realizzato un western ricco di situazioni che di solito non vengono prese in considerazione in questo genere di film.

Proprio così. Devo dire che questa è un’intenzione già presente nel romanzo di de Witt che ha una un sguardo anomalo sul genere, che gli permette persino di soffermarsi su particolari della vita intima dei cowboy e su dettagli che riguardano la loro igiene personale. Per quanto riguarda me, invece, non avendo nessun interesse rispetto al western, ho lavorato su digressioni che mi hanno allontanato dall’impronta tramandata da autori come Sergio Leone. Mi sono accostato a questa storia cercando di prenderla da un punto di vista marginale e, dunque, costellandola di situazioni che fanno de I fratelli Sisters un racconto di iniziazione. I due fratelli sono adulti ma si comportano come dei bambini: litigano, discutono, fanno i peti come se fossero in campeggio. Questo è stato il mio modo di affrontare il genere. Aggiungo che l’assenza di figure femminili deriva proprio dalla personalità fanciullesca dei protagonisti, troppo immatura per poter gestire il rapporto con l’altro sesso. La questione di fondo è come e se avverrà il passaggio all’età adulta. Essendo un racconto di formazione, viene da se che per Eli e Charlie l’unica chance di crescere e di  iniziare a muoversi con le proprie gambe gli sarà data – una volta tornati a casa – dal riuscire a smarcarsi dalla propria madre.

Hai detto di non riconoscerti in un determinato stile, ma, per quanto riguarda i temi, The Sisters Brothers si pone in perfetta continuità con la tua filmografia. Sei d’accordo su queste considerazioni?

Il problema è che, sul piano razionale e intellettuale, non so veramente dire qual è il mio stile. Non è un modo per non rispondere alla domanda, ma quello che penso realmente. Lo stile è forse l’idea che si fa il pubblico di un certo autore e, nel caso della critica, la sintesi teorica sulle caratteristiche dei singoli autori: io però non sono un tipo che si alza la mattina sapendo che girerò un film con un determinato stile. Al contrario, quando scrivo ho la consapevolezza di avere una certa conoscenza di determinati temi e di quali, nei miei film, siano quelli più ricorrenti. Tra questi, per esempio, c’è quello dell’eredità attraverso cui cerco di capire cosa ne facciamo e in che maniera modifichiamo il lascito ricevuto dalla famiglia e dall’ambiente. Argomento, questo, collegato all’altro relativo alla possibilità di una seconda vita intesa come opportunità di cambiare la nostra esistenza rispetto a un percorso già segnato. A quanti cambiamenti possiamo aspirare e con quale determinazione li perseguiamo è una delle domande a cui tento di rispondere con i miei film.

Parlando di Sergio Leone hai sottolineato l’audacia formale del suo cinema. Una qualità che appartiene anche a I fratelli Sisters; come dimostrano la prima sequenza, girata al buio e in campo lungo e l’ultima, che lavora sul tempo, citando al contrario Sentieri selvaggi nel momento in cui i protagonisti entrano nella casa al contrario di Ethan che nel film di Ford si ferma sull’uscio, rimanendo all’esterno dell’abitazione. Il tutto, in un quadro conclusivo in cui, come sempre capita nelle tue storie, assistiamo a una scena di ricongiungimento famigliare. 

Per quanto riguarda la sequenza di chiusura, ti dico che non sarei mai stato capace di stabilire a tavolino come realizzarla. Ne avevo scritto otto versioni diverse, ma di fatto sono stato in grado di visualizzarla solo quando è arrivato il momento di girarla e mi sono ritrovato sul set. Però, rispettando l’ordine della tua domanda e iniziando a parlare di quella d’apertura, c’è da dire che si tratta di una scena assolutamente preistorica, che riguarda la primissima versione della sceneggiatura scritta con Tomas Bidegain. All’inizio avevamo ipotizzato un film completamente notturno, immerso nell’oscurità “prima che sorgesse il sole della democrazia”, con personaggi vampireschi che appaiono e scompaiono come lampi. Nella versione finale questa diventa emblematica di quella immaginata precedentemente e per ciò completamente buia. La stessa è il risultato di una riflessione per la quale vi racconto un aneddoto: come ogni tanto mi capita di fare ho dato un’occhiata al piano di lavorazione, accorgendomi che l’aiuto regista aveva ipotizzato di girare il finale due settimane in anticipo rispetto a quanto stabilito. A quel punto gli ho detto che se volevamo continuare ad andare d’accordo la scena doveva essere girata l’ultimo giorno. D’altronde, il film era stato realizzato senza rispettare l’ordine cronologico della storia per cui è solo al momento dell’ultimo ciak che avrei potuto ritrovare i personaggi, perché è solo allora che avrei visto dove li avrebbe portati il loro percorso esistenziale. Detto questo, la sequenza è stata premeditato solo nella notte precedente: ho preparato il piano sequenza in quattro ore e l’ho girato in due.

I fratelli Sisters contrappone coppie di personaggi antitetici che, dell’America, potrebbero rappresentare due facce della stessa medaglia: da una parte quella sporca e istintiva, rappresentata da Eli e Charlie, interpretati da Reilly e Phoenix, dall’altra quella idealista, riflessiva e analitica, quasi scientifica, incarnata da Warm e Morris, impersonati da Riz Ahmed e Jake Gyllenhaal.

La scrittura della sceneggiatura ha conosciuto due momenti importanti: in realtà, con Tomas abbiamo lavorato a più declinazioni della stessa versione. Il cambiamento è avvenuto in un secondo momento e si è verificato ragionando su una cosa di cui non c’eravamo resi conto e cioè che il romanzo di de Witt descrive i personaggi di Warm e di Morris, tratteggiandoli in modo molto schematico e con poca consistenza. Ne ho avuto certezza durante la selezione del cast. Se la scelta dei due fratelli è stata molto facile, perché si sapeva già che John C. Reilly avrebbe interpretato Eli e che quasi subito abbiamo potuto contare sull’appoggio di Joaquin (Phoenix), la stessa cosa non è accaduta per gli altri due personaggi, perché sostanzialmente questi non erano stati abbastanza sviluppati dall’autore del libro. Per raggiungere lo scopo ho capito – se posso permettermi l’espressione – di dover ridiscendere in miniera, rimettere mano alla sceneggiatura e riscriverne i caratteri, rimpolpandoli con un’espressione e una dimensione che permettessero di inquadrarli come personaggi. A quel punto, assunto il giusto peso narrativo, è stato facile trovare gli attori. Oltre ad avere la stessa importanza dei due fratelli ed essere quasi concorrenziali ad essi, Warm e Morris hanno portato nella storia la riflessione dell’intelligenza e il fatto che la corsa all’oro non dovesse rappresentare una cosa fine a stessa, risultato dell’egoismo e della cupidigia, bensì il carburante necessario ad alimentare l’utopia di una società parallela, basata su valori opposti.

Matthias Schoenaerts, Romain Duris, Vincent Cassel e Joaquin Phoenix sembrano scelti per la capacità di rappresentare una durezza e una caparbietà che poi questi attori faticano a replicare in altri ruoli. Volevo sapere se è questo il motivo per cui hai deciso di lavorare con loro?

Sono attori molto diversi l’uno dall’altro. Sicuramente incarnano una mascolinità eterogenea, ma per interpretare i ruoli che gli ho proposto e raggiungere una certa dolcezza hanno dovuto cedere una parte della loro virilità. È chiaro che nel caso di Jean-Louis Trintignant non è stato molto difficile, al contrario degli altri, la cui evidente fisicità ne faceva uno dei modelli maschili più forti. Forse, ha ragione la mia ex moglie quando dice che filmo i personaggi maschili come se fossero femminili. Negli attori ricerco sempre questo aspetto ed è chiaro che, come succede a Schoenaerts in Un sapore di ruggine e ossa, più il corpo è massiccio, più è evidente la dolcezza del suo personaggio.

Come autore fai un cinema personale che però riesce a coinvolgere e a unire il gusto di un pubblico numeroso ed eterogeneo. Come concepisci il rapporto tra lo spettatore e la tua opera?

Beh, innanzitutto, io stesso sono spettatore non soltanto di film ma anche delle idee che vi sono in essi e per le quali mi confronto sempre con altre persone. È una cosa di cui mi sono reso conto tardivamente. La gente ha vari modi di interagire con il mondo che sappiamo essere vario. Io no, ne ho uno solo ed è per questo che ho scelto di fare il cinema: inizialmente mi ha permesso di interagire con due persone, e cioè con lo sceneggiatore e con un altro componente del cast, poi con l’intera troupe e, infine, con più soggetti attraverso la visione del film. La cosa magnifica del cinema, che è vera anche per il teatro, sta nel fatto che entrambi ti permettono di entrare in comunicazione con gli altri ma non solo; per il tramite di un progetto che diventa personale il suo significato viene metabolizzato dalle persone che lo vedono. A quel punto il film cambia perché, venendo capita l’opera, si modifica ed evolve grazie all’interazione con gli altri. Dapprima si tratta di poche persone: lo scenografo, la costumista, il direttore della fotografia, poi l’interazione si allarga grazie al pubblico della sala. È come se partissi dal mio angolo e poi nel momento in cui vado verso gli altri tutto si modificasse diventando diverso da come lo avevo pensato.

Nonostante la presenza di figure femminili il tuo cinema è principalmente incentrato sulla crisi di personaggi maschili che sono al centro di una riflessione su cosa sia necessario per essere uomini. È così?

Si, forse hai ragione perché probabilmente si può dire che i miei film siano una critica alla mascolinità a partire dal mio primo lungometraggio che si intitolava Regarde les hommes tomber (1994), che in italiano significa Guarda gli uomini che cadono. Peraltro è bizzarro perché il mio prossimo progetto parla di un uomo che vuol diventare donna.

Uno dei temi più nascosti, ma non per questo meno interessante, deriva dall’uso del linguaggio: i due fratelli si interrogano di continuo sulla parola giusta da usare e sulla natura delle loro conversazioni. Siccome mi sembra che anche questo aspetto contribuisca alla crescita dei protagonisti, ti chiedo se si tratta di una circostanza presente nel libro oppure se sia il frutto di una riflessione successiva al testo di de Witt?

Era già presente nel libro e ne costituiva il suo fascino. Questi due fratelli, assolutamente basici e primari, che però parlano e discutono come fossero due piccoli conti, l’ho trovato fin da subito affascinante. Sembrano usciti da un romanzo di Diderot, ed era questo l’aspetto spiritoso e piacevole. Devo dire che l’ho tenuto in sceneggiatura e che il piacer di sentirli parlare sul set mi ha poi costretto a tagliare un mucchio di sequenze incentrate sui loro dialoghi. Adoravo il fatto che conversassero con questo tono e che continuassero a farlo, anche mentre a cavallo davano la caccia ai fuggitivi.

In continuità con i tuoi film precedenti, anche I fratelli Sisters presenta figure paterne tiranniche, famiglie da ricostruire e la violenza come costante regolatrice dei rapporti umani.

Riguardo alla figura del padre tiranno e alla brutalità tra gli uomini, sono di sicuro due elementi del genere western che rimandano alla questione secolare ed esistenziale per eccellenza che è quella della brutalità dei rapporti tra esseri umani. Pensa a due film di John Ford come L’uomo che uccise Liberty Vallance e Rio Bravo, in cui tali argomenti vengono trattati e le cui problematiche sono qualcosa che prima o poi dovremmo riuscire a risolvere o quantomeno affrontare. Di certo, ciò che mi sta più a cuore è l’eredità di queste figure paterne, come veniamo a patti con questo tipo di figure maschili che si ricollegano al fatto di chiedermi che tipo di mondo stiamo lasciando al futuro. È la domanda che più di tutte mi pongo.

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