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Underground

Columbus, il lungometraggio di esordio di Kogonada

Sebbene esile, è storia di inquietudini, di frustrazioni, delle loro strutture nascoste, più che delle rispettive epifanie, quella che Kogonada illustra per il tramite di un repertorio espressivo controllatissimo e legato al dettaglio prospettico, cromatico, ambientale

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È sempre complicato stabilire con precisione il confine che separa la proiezione sentimentale della realtà dalla sua conoscenza (e accettazione). Simile incertezza contraddistingue il quotidiano in apparenza routinario e tranquillo della giovane Cassandra/Richardson, detta Casey, liceale (da poco diplomata) con un impiego precario presso la biblioteca comunale di Columbus (In.) colta nel momento in cui il guado che si affaccia sull’età adulta ha ancora i connotati infidi di una superficie stagnante.

Riflessiva e curiosa Casey vive nell’area suburbana con la madre Maria/Forbes – donna ferita da trascorsi di dipendenza e di abbandono, operaia e inserviente (anche lei sempre sul filo dell’incertezza lavorativa) – coltivando un interesse particolare per l’architettura, in specie quella della sua città (punteggiata dalle visioni precorritrici di tecnici-artisti del calibro di Saarinen, Berke, Weese, a loro volta spinti, sull’abbrivo offerto dall’industriale J.Irwin Miller alla fine degli anni Cinquanta, a verificare sul campo l’eventualità di ridisegnare gli edifici di interesse pubblico secondo i canoni di un razionalismo temperato da una qual austerità gentilelato sensu da quell’ottimismo utopistico tipicamente americano sempre a cavallo tra fiuto imprenditoriale, filantropia e trasporto per il futuro), alcuni esempi della quale eleva – tra sé – a rango di luoghi preferiti, ossia in grado, nel caso e allo stesso tempo, di conferire uno spessore ulteriore alle non sempre esaltanti esperienze del passato e di puntellare la friabilità del presente, come di concorrere alla prefigurazione di orizzonti più vasti di quelli solitamente a disposizione, allo scopo di dirimere quel dilemma ricorrente alla scadenza della prima giovinezza che si sostanzia di ansie di affrancamento quanto di confortevoli autoindulgenze. Sarà l’irruzione casuale di Jin/Cho, traduttore coreano in forzata trasferta al capezzale di un padre ingombrante e lontano, nella continuità imperturbabile e seducente di un mondo sospeso, contegnoso, a modo suo latore di una perfezione non solo possibile ma, per certi versi, praticabile, a imprimere crepe profonde nella fortezza emotiva di Casey, facendo emergere da essa ciò che una sorta di estetizzante e introflessa apatia aveva scambiato per accettabile consuetudine.

Sebbene esile, è storia di inquietudini, di frustrazioni, delle loro strutture nascoste, più che delle rispettive epifanie, quella che Kogonada illustra per il tramite di un repertorio espressivo controllatissimo e legato al dettaglio prospettico, cromatico, ambientale. Il film consta, infatti e perlopiù, di ricercate inquadrature, all’interno delle quali i personaggi sono chiamati a orchestrare le loro laconiche esistenze fatte di gesti misurati e ripetuti, quasi bastasse eternarli per arginare il disgusto e la sofferenza. Ciò che intriga in un’opera così scopertamente scostante, sempre sul crinale della stilizzazione fredda è, al contrario, il carico di tensione che essa riesce via via ad accumulare a margine del dialogo spesso ostile tra un rigore del raziocinio fin troppo avvertito e consapevole nelle parole e nei gesti e una instabilità spirituale tanto compressa quanto mai doma che quelle parole e quei gesti – al culmine di un silenzio prolungato, nel cuore di uno sguardo frainteso – nega o dalle quali, quanto meno, dissente. Allo stesso modo, lascia il segno il fascino segreto di una imprevedibilità comunque incombente – quella del caso, quella delle risoluzioni fulminee, dei cambi di umore – contro cui nulla possono la pienezza discreta dei volumi, la geometria essenziale ma esigente delle linee, la quiete quasi pacificata dei vuoti, al centro di un panorama da ideale sociale realizzato. A conferma che il perimetro dei vincoli esistenziali, il suo stratificarsi giorno dopo giorno nell’astrattezza dispotica di una impassibile inesorabilità, se sollecitato nei punti sensibili – il tempo ritrovato dei rapporti, la forza nuda della sincerità, la ribellione all’ambigua opacità della materia – può arretrare e consegnare la scena, nuova e come intatta, allo slancio sincero di emancipazione di un animo confuso ma libero.

Alessandro D’Orazio

  • Anno: 2017
  • Durata: 104'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Kogonada

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