Coadiuvato da una campagna di crowdfunding per poterlo realizzare, Robot Will Protect You di Nicola Piovesan (presentato allo Skepto Film Festival) è, sì, un palese omaggio a Blade Runner e a Miyazaki (si pensi all’ormai iconica sequenza di Totoro sotto la pioggia), ma è in particolar modo un cyberpunk sulle relazioni spente. E per relazioni si intende anche il contatto fisico. La popolazione fa pochi figli e il Governo la incentiva donando a chi procrea un robot-tata. Ed è quello che è successo alla protagonista, Tina, che si muove in una città cupa assieme al suo protettivo robot in fase di perdita di carica di batteria. Gli umani si smarriscono nella solitudine della tecnologia e i robot li sostengono con una affettività programmata. Meccaniche unità biologiche adattive. La relazione oggettuale (giusto per citare Freud ogni tanto, nonché Melanie Klein) di Tina, ossia il rapporto tra le relazioni e il funzionamento psichico, vive una paralisi soccorsa costantemente dal robot. Ossia una tata ma anche un giocattolo e più in generale una presenza. La presenza costituisce un’accessibilità, l’assenza un’inaccessibilità. Il robot per Tina è l’accessibilità, ossia la sicurezza, la non paura. La non paura dell’inaccessibilità, cioè del rapporto che non c’è più. Come qualcuno che ti ripara con un ombrello dalla pioggia, il robot ripara (si vedrà) Tina dalla paura di un’assenza. La ripara da ciò che non è più accessibile in quanto non più presente. Non solo, il robot protegge inconsapevolmente i sentimenti di Tina (l’angoscia, il timore, etc), seppur lei pare possa riuscirci anche da sola, e protegge Tina stessa oltre che dal suo mondo interno anche dal suo mondo esterno: la protegge dal pericolo. In parole povere, il robot è per Tina l’unica sicurezza, l’unica figura di attaccamento. Ma poi è davvero così? Il cortometraggio dipana la questione.
Ci mostra in ogni caso che l’angoscia della separazione viene acutizzata da una presenza affidabile, forte ma anche buffa e non troppo intelligente come il robot di Tina. Il cortometraggio di Nicola Piovesan ci parla quindi di solitudine e di timori come l’abbandono e la perdita (temi già affrontati in questa decima edizione del festival, così come è stato affrontato il tema della alienazione tecnologica). Un timore che potrebbe concretizzarsi con un banale problema quotidiano: al robot gli si stanno scaricando le batterie. L’obiettivo è allora quello di arrivare sani e salvi prima di lasciare una bambina sola in una città oscura e priva di slanci vitali. Già, perché una società che non vuole più figli è una società che vuole morire. Lasciarsi scaricare. Cosa questa che il robot non può permettere. La fine del robot potrebbe compromettere la sopravvivenza della bambina. La società si è imbruttita e tenta il suicidio e solo i bambini possono salvarla. E a proposito di società spente, va detto che il regista Nicola Piovesan è uno di quei tanti che hanno deciso di lasciare l’Italia in quanto paese che vive una fase a dir poco decadente su molti – troppi – punti di vista (il fattore economico, il fattore meritocratico, il fattore culturale, persino il fattore prettamente umano). La meta del veneziano Piovesan è stata quindi Tallinn in Estonia. Tornando al cortometraggio e alla decadenza di quel mondo raccontato, l’elemento necessario non è solo il tornare a casa prima che sia troppo tardi ma il fattore determinante è il recupero di un oggetto vitale. Un oggetto capace di donare emotività, sì perché Tina è legata in modo materiale-protettivo al robot ma l’affettività è un’altra cosa. È una luce che può salvarti dalla angoscia pur essendo essa stessa fatta di angoscia. Una luce che può mostrarti la perdita e che può, chissà, farti elaborare la perdita in un luogo forse ormai già perso.
Ecco, quindi, il lato protettivo del robot. Una protezione fisica e materialmente logica ma non una protezione affettiva. Il robot non può comprendere l’amore, è programmato per proteggere, tuttavia può aiutare lei a non perderlo. A non perdere il lumicino dell’affettività in un contesto sociale dove le emozioni vengono appagate con la tecnologia e non più con i rapporti umani. E, infatti, non si fanno molti figli. Il mondo reale è quello irreale della tecnologia, il concetto di verità diventa un possesso del virtuale. Il concetto di realtà è proprietà della virtualità. Qui il rischio è di smarrire il mondo, quello terreno e il mondo di se stessi. Tina però comprende ancora le differenze, forse grazie a quella luce che cerca e perciò non vuol bene al robot. Gli piace, le sta simpatico, ma il voler bene è un dato umano. Un dato umano che la tecnologia pian piano sta rubando. Si pensi al nostro contesto. L’amore viene filtrato da una comunicazione tecnologica. Oggi una persona può decidere di sospendere la tua affettività semplicemente bloccandoti su Whatsapp. Si ha il potere di bloccare una persona, un essere in carne ed ossa. Corretto allora, come fa la bambina dell’ottimo cortometraggio di Piovesan non voler bene al robot ma ai ricordi, per quanto atroci. Il dolore è pur sempre umano e va preservato anche quello.
Nelson Pinna