“Quando una persona soffre, bisogna semplicemente aiutarla“. È la frase più emblematica pronunciata in Happy Today, il bellissimo documentario di Giulio Tonicelli proiettato nella sezione Docu-short dello Skepto Film Fest a Cagliari, dove ha ricevuto più che meritatamente la Menzione Speciale, anzi forse avrebbe meritato anche di vincere il primo premio.
Sono parole che vengono dalla voce di Patricia Lagua Leo, una donna meravigliosa che il regista racconta di aver scelto immediatamente, dopo pochi giorni in cui, recatosi in Uganda in collaborazione con la Fondazione Ambrosoli di Milano e con l’intenzione di documentare il diritto alla salute e all’educazione e il valore della dignità della donna, aveva iniziato a seguire le allieve della scuola di ostetricia, ed entrando in contatto con la sua spontaneità, la sua dolcezza e la sua genuinità, non ha esitato a seguirla e concentrarsi soltanto su di lei. Quella scelta istintiva si è poi rivelata assolutamente riuscita, data la sua naturale vocazione all’empatia e alla cura della donna e di chiunque si trovi in uno stato di vulnerabilità o di bisogno. Durante il film ascoltiamo dalla sua stessa voce la sua storia personale, una storia dolorosissima di abbandono e perdita, che l’ha vista fin da bambina imboccare la strada dell’occuparsi di chi soffre, un percorso nel quale canalizzare tutto il suo essere, mossa dal desiderio di alleviare e, se possibile, evitare almeno agli altri il dolore che ha dovuto provare lei. E allora si intuisce subito come questa persona possa essere diventata quella che vediamo, una persona votata alla cura, all’aiuto, di infinita sensibilità e profondità d’animo, ed è evidente come possa essere nata e cresciuta la sua naturale vocazione.
Intervistando il regista, quello che si percepisce è che probabilmente ci sia stata una sorta di sintonia tra i due, una sorta di affinità di anime, entrambe particolarmente empatiche e sensibili verso l’altro. Giulio Tonincelli viene da un percorso atipico: laureato in Grafica e Design all’Accademia delle Belle Arti, sceglie di orientarsi verso la fotografia e in particolare quella documentaristica, proprio perché gli dà la possibilità di occuparsi e di raccontare la condizione umana nel quotidiano e nel reale. Questo lo rende in qualche modo affine alla sua protagonista, anche la scelta, quindi, probabilmente è stata orientata dall’incontro tra motivazioni in qualche modo analoghe, e questa affinità si percepisce nel film, c’è una sorta di anima, di vitalità che si avverte e che è fatta dell’incontro tra due elementi sinergici che si uniscono per confluire in un unico movimento naturale che arriva immediato allo spettatore. Insomma, quella che poi è l’essenza dell’arte. Molto più potente ed efficace quando è fatta di anima, quando c’è anima dentro. E qui di anime ce ne sono almeno due che evocano facilmente la nostra.
Patricia vive a Kalongo, il piccolo villaggio del nord dell’Uganda in cui è stato girato il documentario, dove si occupa di aiutare le donne che partoriscono, in uno dei paesi in cui vi è il più alto tasso di mortalità materna, in gran parte a causa del fatto che gli uomini non vogliono che le “loro” donne si rechino in ospedale e vengano assistite, perché non abbiano contatti con altre persone. Lei trascorre la sua vita assistendole e curandosi di loro, ma soprattutto ha il privilegio e l’onore di essere in contatto costante con quanto di più bello e miracoloso possa esserci in questo mondo. L’inizio della vita. Ed è questo che si respira durante tutto il film, la celebrazione della vita, prima di tutto e a prescindere da tutto, dal dolore, dal contesto, dalle condizioni. Si sente soprattutto questo, la vita.
Commovente il parto, mostrato integralmente in una scena in cui non solo non c’è la benché minima traccia di qualcosa che possa apparire disturbante o spudorato, come ci si potrebbe aspettare, ma Tonincelli riesce a riprendere l’evento in modo estremamente discreto e nello stesso tempo valorizzandolo, dando allo spettatore la sensazione che non ci sia nulla, nemmeno lui o la macchina da presa, nulla oltre mamma e figlio, nulla oltre loro. E Patricia, il che è ancora più impressionante, fa esattamente la stessa cosa; raccolto il bambino, lo posa sopra il ventre della madre in un passaggio che sembra voler prolungare la fusione tra i due che c’era prima della separazione momentanea obbligata dalla nascita, e riesce a farlo perfettamente: taglia il cordone ombelicale con una leggerezza e una naturalezza da far sembrare che lei non ci sia, come se fosse un movimento insito in un procedere naturale, mentre madre e figlio continuano a conoscersi, ora separati, ma da molto più da vicino. E poi l’immagine degli occhioni enormi del bimbo, che può sembrare banale, ma sono talmente profondi e pieni di vita da restare impressi come qualcosa di magico.
Complice un’ineccepibile fotografia, calda, profonda, perfettamente coerente con le tematiche rappresentate, viene fuori un lavoro di grande qualità. davvero prezioso, che è stato, non a caso, tra i documentari più premiati del 2018, partecipando a 31 selezioni ufficiali in 12 paesi, tra festival nazionali e internazionali; ha avuto, quindi, degno riconoscimento del suo valore. Si spera di poter vedere ancora tante opere come questa, capaci di infondere speranza ed energia positiva in un mondo in cui di espressioni così genuine, e in grado di dare valore alla vita umana e a tutte le sue innumerevoli sfaccettature con tanta sincerità, ne sono rimaste davvero poche.