Un piccolo preziosissimo prodotto proveniente dal Kurdistan, The Last Embrace di Saman Hosseinpuor, che nell’immediatezza di soli quattro minuti riesce a fotografare in modo ineluttabile l’alienazione del mondo attuale, quella in cui la comunicazione e la condivisione sono sempre più mediate dalla tecnologia ed è sempre meno vivibile un contatto reale, fatto di sensi, sguardi, voci.
Una casa, poche stanze, quattro generazioni, ognuna a incarnare una fase della triste e rapida evoluzione della condizione umana, affettiva e sociale, nell’arco, più o meno, dell’ultimo secolo.
Un uomo anziano che sta morendo, ne sentiamo il respiro, l’affanno, l’arrancare attraverso gli ultimi istanti della sua vita, a rappresentare un mondo finito, lontano, che non esiste quasi più, che perde vitalità progressivamente e si affievolisce fino a spegnersi.
Degli adulti, la generazione successiva, forse i figli dell’uomo anziano, stanno seduti uno di fianco all’altro, ognuno intento sul suo cellulare, nemmeno per un istante nessuno di loro rivolge una parola, uno sguardo, un cenno a qualcuno degli altri. Dopo qualche ora che hai terminato la visione del film, non ricordi nemmeno se fossero uomini o donne tanto sono anonimi e privi di anima: quello che trasmettono è disconnessione da qualsiasi reazione naturale, una sorta di resa, di rassegnazione, di esito allucinato e monocorde della loro condizione teoricamente vitale ma che di vitale ha molto poco.
Dei ragazzi, in una stanza buia, che giocano con dei videogiochi, non parlano, non comunicano, lo sguardo fisso sullo schermo, testimoniano alienazione, indifferenza, mancanza di stimoli, di interessi, di individualità, sono un tutt’uno con lo schermo ma, a differenza dei genitori, mantengono un minimo, flebile contatto con il loro agire, con i propri muscoli, utilizzati per incidere sul videogioco.
E, infine, la luce, lei, piccola e bellissima, forse cinque anni, che con i suoi colori crea mondi propri e lo fa in una dimensione ancora priva di strutture, visibilmente ancora connessa con quello che prova, sorride, cambia le espressioni del viso, anche da sola, immersa nella sua creazione. E quando ha finito tenta di mostrare il suo disegno agli altri, si rivolge a tutti ma nessuno la vede, nessuno si distrae dal suo schermo e si accorge di lei, che alla fine riesce a trovare il contatto, la condivisione, lo scambio di calore con l’unico uomo morto, del cui decesso, esattamente come di lei, non si è accorto nessuno.
È potentissima l’ultima scena, in cui la bimba, che non smette mai di sorridere, intraprende un vero e proprio incontro con quel corpo, ci stabilisce un contatto, ci gioca, ne trae calore, fino ad addormentarsi in quel tristissimo e commovente quanto meraviglioso ultimo abbraccio. Triste non per la morte in sé, perché quello che accade tra loro due, avulsi da tutto il resto, è quanto di più umano e dolce si possa immaginare, ma per tutto ciò che li circonda e per l’efficacissima e amara constatazione che sia, in pochi metri quadri in cui sono presenti tante persone, la sola vera condivisione possibile. Con la morte. Ma anche con l’affetto, con il ricordo, tra due corpi che possono toccarsi.
In realtà è un’evoluzione circolare quella decritta in questo brevissimo quanto denso cortometraggio, che in qualche modo conferisce una sorta di speranza, la speranza di un ritorno a qualcosa di più tangibile, a un contatto meno costruito, meno filtrato, più naturale e umano. Probabilmente quel mondo in cui ancora la tecnologia non aveva coperto e condizionato ogni cosa è quasi morto, se non deceduto definitivamente, ma non significa morte assoluta, c’è ancora vita e forse, è proprio da quella morte che si può sperare in qualcosa di nuovo, di puro, che respira di nuovo, da cui il contatto così naturale e spontaneo, paradossalmente vivissimo, della bimba con il nonno e il suo addormentarsi serena.
È un linguaggio che va per contrasto quello del regista curdo, classe 1993, giovanissimo (anche questo aspetto ha un valore non indifferente nell’ambito di un film di questo tipo) che oppone vita e morte, alienazione ed espressività, presenza e assenza, e che si palesa negli oggetti, oltre che nei personaggi; particolarmente bella, a questo proposito, la finezza della bimba che mentre disegna ascolta la musica di una vecchia audiocassetta.
Tutto questo in quattro minuti. Davvero notevole.
Piccola perla da vedere e custodire preziosamente, quindi, questo incantevole lavoro di origine curda, che sarebbe bello avesse una buona distribuzione, che dopo aver girato vari festival nei quali ha vinto non pochi premi, è stato inserito tra i cortometraggi finalisti proiettati nella seconda giornata dello Skepto Film Fest a Cagliari.