L’avocado è un frutto particolare. Cresce su un albero, e dal sapore sembra più un ortaggio, è un frutto esotico e viene dall’America Latina, la buccia sembra pelle, fuori è morbido ma contiene un seme sferico che pare di granito e lo si può tagliare solamente in un modo: in due perfette metà. È il simbolo perfetto per la storia scelta da Darwin Serink, regista canadese/statunitense che oltre alla regìa firma anche la sceneggiatura e la produzione, per comunicare il suo messaggio.
Con registro costantemente intimista e discreto, la camera segue la quotidianità degli unici due protagonisti della scena: Raul e Rosa, compagni di lavoro ben oltre la mezza età, complici silenziosi, vicini in ogni semplice gesto, primo fra tutti la pausa pranzo che ogni giorno condividono. Rosa cucina per entrambi, Raul porta quel frutto strano dal suo albero e lei sa come in quali piatti renderlo buono. I lineamenti sono ispanici, il loro è un lavoro umile, fanno le pulizie in qualche grande ufficio, l’uomo ha i capelli canuti lunghi e raccolti, e i dialoghi sono in spagnolo. È sufficiente questo per capire che si tratta di due immigrati messicani che cercano di inserirsi lavorando nella prospera realtà statunitense. A sottolineare il loro carattere di “invisibili” una giovane ragazza arrivata da poco a fare lo stesso lavoro, con la stessa divisa; non parla mai, cuffie in testa, lavora con la musica alta nelle orecchie, balla, sbaglia e sembra non vederli nemmeno. Con tutta probabilità è americana.
Serink nella fotografia accurata fa largo uso di piani stretti come un ritrattista, cogliendo in ogni ruga dell’uomo l’emozione e la timidezza di un adolescente che non sa come dirglielo. Il corto dura solo undici minuti, ma al terzo stai già facendo il tifo per lui: quei due sono destinati a finire insieme, non si può pensare altrimenti. Il denominatore comune di ogni fotogramma è la semplicità, insieme alla tenerezza e all’ironia che si possono nascondere nell’ordinario, e quando finalmente Raul prende coraggio e fa a Rosa la fatidica domanda, nella sua reazione si può parlare a buon diritto di poesia; bastano gli occhi increduli e commossi dell’uomo, raggiante in tutta la sua pacatezza. È la storia di un banale appuntamento fra due persone attempate e sole che lavorano insieme da chissà quanto tempo, un occhio puntato su quanto di speciale possa esserci nelle vite più ordinarie che si possano concepire. Se non fosse per un unica scena, che rivela il messaggio ultimo scelto dall’autore: la sera dell’appuntamento qualcuno bussa alla porta di Raul, (già tutto elegante per incontrare una donna che l’ha sempre visto solo in divisa). Parlano inglese, è la polizia, gli chiedono i documenti. Raul non ce li ha, è un immigrato irregolare. Raul è senza documenti. Lo arrestano. La sua Rosa lo aspetterà invano, tutta elegante anche lei. Due perfette metà dalla buccia rugosa, divise da un seme sferico di granito. La legge degli Stati Uniti.
Nei pochi fotogrammi finali arriva inequivocabile il messaggio che El Aguacate vuole comunicare: è un grido gentile che sceglie un punto di vista intimo e individuale per denunciare l’ingiustizia dell’attuale amministrazione USA in materia di immigrazione e le ondate di sottocultura nazionalista e razzista su cui fin troppo spesso affonda le sue radici. Il tutto senza la minima ombra di alcuna argomentazione politica. Solo due persone.
Darwin Serink: “El Aguacate è ispirato dalle idee razziste e nazionaliste che l’attuale governo degli Stati Uniti sostiene contro le persone senza documenti che vivono nel mio paese. Essendo io stesso un immigrato della prima generazione mi sono sentito in dovere di raccontare una storia che riguarda una persona senza documenti. Volevo raccontare una storia dalla prospettiva di quella persona e quanto la vita di un uomo può cambiare completamente in un istante solo per il suo status di cittadinanza. Per me è incredibile il livello di ignoranza e delle palesi visioni razziste che ci sono attualmente negli Stati Uniti. Questo film è pensato per portare un po’ di umanità alle persone senza documenti che oggi vivono nel mio paese”.
Del resto, dell’Avocado la parte più odiosa è sempre stata solo il seme.
Nicola Girau