Downunder di Fernando González Gómez cita a piene mani tutti i topoi del cinema di genere, dal thriller al western, dall’horror al noir, inserendosi nel solco dei b-movies prendendone il materiale narrativo e lavorando sull’estetica dell’immagine con inquadrature che vanno dall’insistenza del dettaglio a quelle oblique dei personaggi e a quelle basse al livello della strada.
Siamo in mezzo a un paesaggio western – che potrebbe essere l’America, la Spagna, il Messico o l’Australia (visto il richiamo al titolo che è un modo gergale per indicare quest’ultimo paese) – che a tutti gli effetti è un nowhere, un luogo fuori dal tempo e dallo spazio in cui agisce un serial killer psicopatico che uccide le persone che incontra e si sostituisce a loro prendendo non solo i vestiti, ma anche le personalità.
Downunder è un colorato omaggio pop a un immaginario cinematografico che l’autore spagnolo conosce molto bene e che sfoggia senza nessun limite in un parossismo contenutistico e formale. C’è di tutto: il poliziotto un po’ sprovveduto, la bella armata, il ragazzo gay, il camionista burbero, la famigliola polacca (di cui si intravedono i cadaveri) in un gioco al citazionismo che spesso (e in un cortometraggio più che un pregio è un difetto) diventa stucchevole. Gómez costruisce un gioco metacinematografico immergendo il tutto in un tono da commedia nera che travalica i confini della comica, creando una pellicola aperta (con relativa ultima scena dopo i titoli di coda) che porta alle estreme conseguenze il patchwork messo in piedi per chiamare in causa tutto il cinema a cui si è formato.
Downunder appare così un film dove la visione è piena – di personaggi, inquadrature, colori, sonoro e musica – senza alcun vuoto che invece di renderla compatta ne irrigidisce la forma. Presentato in concorso allo Skepto International Film Festival, Downunder risulta essere un’operazione un po’ fine a se stessa, che si trasforma ben presto in un esercizio di stile molto superficiale.