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Interviews

37 Bergamo Film Meeting: Intervista a Bent Hamer, cineasta norvegese di culto

A ridosso dell'incontro col pubblico e della proiezione di Eggs, suo lungometraggio d'esordio, siamo riusciti a incontrare privatamente Bent Hamer, maestro del cinema scandinavo da noi molto amato.

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Una curiosa immagine di Eggs, film d’esordio del norvegese Bent Hamer

Al pari del pubblico italiano maggiormente cinefilo, abbiamo parecchio apprezzato nel corso degli anni film come Kitchen Stories – Racconti di cucina (2003) e Il mondo di Horten (2007), fortunatamente distribuiti anche da noi. Grazie però a una leggendaria Settimana del cinema Norvegese organizzata a roma nell’aprile 1996, avevamo avuto la fortuna di conoscere la poetica di Bent Hamer, cineasta scandinavo divenuto ormai di culto, proprio in occasione del suo lungometraggio d’esordio, l’ironico, tenero e originalissimo Eggs.
Con questo bagaglio di visioni alle spalle, abbiamo approfittato della retrospettiva dedicatagli dal 37° Bergamo Film Meeting per avvicinare il regista norvegese e fargli qualche domanda. Lui, in stile nordico, con un bicchiere di birra davanti, ci ha accolto in modo estremamente cordiale e benevolo, condividendo con noi alcune interessanti riflessioni sul suo modo così peculiare di fare cinema.

Bent Hamer con Stefano Coccia, inviato di Taxi Drivers

Questo nostro incontro, Bent, avviene dopo che hai potuto introdurre al pubblico di Bergamo il tuo lungometraggio d’esordio, Eggs. Ti confesso però che io l’avevo già visto in un’altra occasione, parecchio tempo fa…

Può essere, allora, che tu adesso lo ricordi anche meglio di me! (ridendo)

Forse sì, chissà! (ridendo a mia volta) Ad ogni modo si è trattato per me di una seconda visione, a più di vent’anni dalla prima, perché il tuo film era stato inserito in una gran bella retrospettiva sul cinema norvegese, organizzata a Roma nella seconda metà degli anni ’90. C’erano opere di registi che all’epoca stavamo scoprendo anche in Italia e che mi piacevano molto, come Unni Straume, Knut Erik Jensen, ed altri ancora. Il tuo film però mi colpì più di tutti per la sua originalità. A questo punto mi viene naturale chiedertelo: avevi la percezione, all’epoca, di aver esordito in un periodo particolarmente felice a livello creativo, per il cinema norvegese?

Dunque, alla fine degli anni ’80 i film norvegesi erano molto politically correct, molto socialdemocratici, quindi non molto eccitanti a parte qualche rara eccezione. Mentre già dall’inizio degli anni ’90, considera che Eggs è del 1995, abbiamo avuto la possibilità di cominciare a girare film più personali, scrivendo sceneggiature che non trattassero soltanto temi politicamente corretti, ed arrivando così a cambiare un po’ l’atmosfera. In questo modo sono arrivati film come Insomnia di Erik Skjoldbjærg, come Junk Mail (distribuito anche in Italia col titolo Posta celere, N.d.R.). È stato il momento in cui in effetti si è mosso qualcosa.

In molti di questi film, ma in particolare nei tuoi a partire da Eggs, ho notato anche un modo diverso, insolito, di ritrarre i personaggi maschili. Si rimane colpiti dal proliferare di personaggi solitari, un po’ isolati dalla società, assolutamente non integrati in quel sistema rigido che quasi li respinge. Tutto ciò si ritrova specialmente nei tuoi successivi lungometraggi ma con uno humour di fondo molto forte. Anche questo quindi è un elemento di rilievo, nel modo che hai di rapportarti alla narrazione cinematografica?

Il discorso dello humour effettivamente è molto importante, anche se di mezzo c’è una malinconia, anche se comunque sono sempre storie un po’ deprimenti e solitarie, trovandoci noi in una zona geografica che potrebbe essere pure definita “la cintura della vodka”. A questo punto lo humour è di aiuto perché riesce a creare un po’ di distacco, rispetto a queste storie magari un po’ deprimenti.

Oltre allo humour, e non lo dico soltanto perché uno dei tuoi film (Factotum, N.d.R.) si ispira direttamente a Bukowski, credo che incidano anche certe influenze letterarie. Persino nella narrazione cinematografica che in alcuni casi sembra strutturata a paragrafi. La letteratura ha avuto un peso anche nella tua formazione o sbaglio?

Sì, penso che sia abbastanza vero. Sento che tutto mi viene dalle storie, probabilmente sono stato più influenzato dalla letteratura che dai film. Del resto ho studiato sia letteratura che teoria del cinema. Anche se poi, nel mio processo creativo, questi due ambiti non li distinguo più molto…

Alcuni tuoi film, vedi Kitchen Stories, sono stati regolarmente distribuiti in Italia. Quando lo vidi al cinema rimasi colpito anche dall’ironico riferimento a una società scandinava così ordinata, metodica, organizzata, modellata su quello stato sociale cui alludevi anche tu, prima, a proposito del “politicamente corretto”. Tirando le somme, come ti rapporti tu a questo mondo?

Io dico sempre che non è una cosa strana che l’Ikea sia svedese. Siamo soliti dire che la colpa è sempre degli svedesi!
Non so, forse il modo che ho di creare questo genere di storie e di personaggi si lega abbastanza al modo che ciascuno ha, in quanto essere umano, di organizzare la propria vita. Con tutte le differenze del caso. In letteratura può essere più facile presentare il modo di vivere della gente, perché c’è più tempo, più spazio. Magari quando lavoro alla costruzione dei personaggi, cercando di entrare nel profondo della loro vita, mi rendo conto che di sicuro c’è una base letteraria che m’aiuta a costruirli in un certo modo; però, in realtà, quando ci entro dentro, mi rendo conto che non è poi così diverso da come ognuno di noi organizza la sua vita, perché ognuno noi ha bisogno di darsi uno schema di vita, in un certo senso.

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