Nel documentario di Lorna Tucker ben presto i ricordi si mescolano al presente e bussano prepotentemente a una porta che la stessa Vivienne Westwood fatica ad aprire. A tratti la sua ritrosia combacia con una sorta di altero distacco, al punto che annettere al racconto filmico il periodo dei Sex Pistols, e la relativa relazione sentimentale e professionale con il loro manager Malcolm McLaren, si trasforma in una specie di operazione “nostalgia canaglia”, senza né vinti, né vincitori, con a farla da padrone il sincero pragmatismo della stilista inglese.
Con una buona dose di compassato spirito teatrale, la regina del Punk, accomodata in un’ampia poltrona di una voluttuosa trovata scenica pseudo confessionale, avvolta in colori tenui e pastello esaltati dalla fotografia di James Moriarty, sviscera la verità, nient’altro che la verità, parlando dei suoi inizi e della musica in grado di influenzare le sue prime creazioni. È un viatico nel quale la macchina da presa di Tucker da subito tradisce un interesse predominante verso gli aspetti più strettamente collegati alla moda, alla couture e a tutte le sue combinazioni. Il “resto” molto spesso tende a manifestarsi con i contorni del semplice accessorio, complementare, a volte necessario ma pur sempre un accessorio. Un punto di vista, questo, già assurto a protagonista di un incidente diplomatico con la stessa Vivienne Westwood che, dopo l’uscita della pellicola, tramite un comunicato della sua azienda, ha disconosciuto il lavoro di Tucker, rimarcandone il poco spazio dedicato alla sua attività filantropica per l’ambiente e i diritti civili. A tal proposito, sarebbe stato interessante conoscere anche l’opinione di Andreas Kronthaler, l’attuale compagno della stilista, suo ex-allievo sposato nel 1992 con non pochi anni di più sulle spalle. Il suo ritratto incontra la medesima sorte della moglie sottraendosi a una configurazione definita e, a parte l’evocazione di un indubbio talento, si colloca a metà strada tra l’amore imprescindibile e l’indefesso professionista curatore delle collezioni della Maison. Forse è anche per questo che la sensazione di assistere alla messa in opera di un perfetto paradosso non abbandona mai il lavoro di Tucker: mentre le fasi della vita e dell’opera della grande artista inglese scorrono, inquadrate in un criterio che segue una più o meno fondata linea cronologica, infarcite delle testimonianze di manager, amici e prole, tra gli altri Jo Corré, uno dei suoi due figli, cofondatore di “Agent Provocateur”, quando si scende dalla giostra resta l’impressione di un’immutabile attitudine verso la realizzazione di un manufatto che sfogliate tutte le patine di tempo e di colore tutto sommato rimane sempre uguale a se stesso: Vivienne Westwood. Lo stesso destino che in fondo accomuna il suo simulacro più noto, il negozio che dal 1971 a Londra occupa il numero 473 di King’s Road dapprima con il nome di “Let it Rock” e, dopo numerosi cambiamenti di destinazione e di look, approda alla definitiva denominazione di “World’s End” con sulla facciata in bella vista l’icona divenuta celebre dell’orologio con le lancette che girano all’incontrario. Felice rappresentazione, come in un romanzo scritto bene, di una storia che testimonia e non spiega, lasciando poi allo spettatore il compito di dedurre, di decifrare ed eventualmente comprendere.