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Conversation

L’arte deve tenere conto dei problemi che affliggono questo mondo: intervista all’attrice e performer Roberta Da Soller

Piccola Patria l'ha vista esordire in quello che è considerato uno dei film italiani più importanti del nuovo millennio. Il seguito è stato un percorso d'artista eclettico e multidisciplinare in cui performance e recitazione sono il riflesso di un'arte non disgiunta dai problemi del mondo. Abbiamo incontrato Roberta Da Soller alla vigilia delle riprese di Effetto domino, opera seconda di Alessandro Rossetto

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In concomitanza con la tua esperienza sul set porti avanti uno studio teorico universitario che partecipa in maniera attiva alla passione per la recitazione e le arti performative. Non è una cosa comune per un attrice.    

Si tratta di attività fondamentali perché mi forniscono gli strumenti per riflettere sul cinema: in particolare la performance e le nuove estetiche sul performativo offrono risorse molto utili a chi fa il mio mestiere. A livello di studio teorico mi sono specializzata di più su queste ultime e poi sul teatro sperimentale, quindi non non so bene se esista una teoria del cinema legata all’aspetto attoriale: di certo esiste un’estetica della produzione cinematografica relativa a regia, montaggio sceneggiatura. La cosa interessante della performance è quello di farti capire chi sei tu come corpo all’interno del set. Fino a qualche tempo fa quest’ultimo veniva considerato solo in senso semiotico, portatore di segni di una determinata figura, ma privato della sua consistenza corporea. Un’idea ancora presente in molti teatri stabili, le cui produzioni mirano un po’ a questa decostruzione della persona, fatta su misura per accogliere i segni del personaggio. Al contrario la performance ci suggerisce un nuovo concetto di incarnazione, affermando che il nostro essere nel mondo corporeo è condizione di possibilità per la codificazione di sé e per la produzione di significato, arrivando al punto di affermare che alcune volte la figura non può esistere al di fuori di una certa specifica corporeità. Nel cinema questa teoria è molto praticata, e per esempio Alessandro Rossetto lavora in maniera assidua verso tale direzione, e cioè considerando innanzitutto il significato creato dal corpo in quanto conduttore di possibilità. Diciamo che per me l’Università e la ricerca mi fanno comprendere meglio cosa significa stare con il mio corpo e la mia esistenza all’interno delle pratiche artistiche, e quindi anche del cinema.

Spulciando nella tua biografia, ho visto che ti sei laureata in lingue e letterature straniere, poi in filologia ispanica e, infine, sei anche insegnante alla IUAV – Venezia Arti Performative. Questo per dire come il termine attrice sia di per sé incompleto se rapportato alle attività che svolgi in campo artistico. Qual è dunque la percezione che hai di te in questo campo?

Alla IUAV non sono ancora un’insegnante, però faccio l’assistente di alcuni artisti nel laboratorio di arti performative e in loro assenza li sostituisco. Venendo alla tua domanda, dico che non è facile rispondere perché anche a livello lavorativo è difficile dare una definizione del sé per cui quando me lo chiedono dico: “si, alcune volte sono un’attrice” (ride, ndr). In generale, ho sempre cercato un po’ di felici compromessi tra le mie tante passioni e cioè tra lo studio, la performance, il teatro, il cinema e anche l’attivismo politico, una passione quest’ultima nata insieme a quella per le arti. Per me non esiste la possibilità di occuparsi di arte senza tenere conto dei problemi che affliggono questo mondo: da qui il fatto di non riuscire a dedicarmi a una sola cosa e la ragione per cui non faccio al cento per cento le cose di cui mi occupo (ride, ndr). Per altri questo aspetto potrebbe costituire un limite, mentre per me è sempre stato un lusso, una ricchezza che mi permette di tenere insieme l’avanzamento teorico con la pratica artistica e politica. Rifarei questa cosa senza pensarci, anche a fronte della precarietà che essa comporta. Per tornare alla domanda, non so come mi definirei se non una persona appassionata all’arte dal vivo, al cinema e alla politica, tenendo conto che la definizione della propria identità non è mai fissa.

Era interessante chiedertelo perché di fronte a un curriculum come il tuo la domanda nasce spontanea. In particolare, colpisce il fatto che tu abbia esordito con un film come Piccola patria, tra i più belli e importanti dell’ultimo cinema italiano, e che poi, invece di continuare su questa strada ti sia inoltrata in un percorso diverso e, per certi versi, divenuto addirittura preminente.

Si assolutamente. La mia è stata una scelta di vita. Ammiro molto chi riesce a dedicarsi a una cosa e la fa molto bene per tutta la vita. Penso sia un po’ nella mia indole cercare l’interconnessione tra le cose e, dunque, a non ragionare per settori: il mio modo fisico di stare nel mondo è uguale. L’esempio di quanto sto dicendo è stata la mia reazione nel momento in cui la mia agente ha ventilato la possibilità di dovermi trasferire a Roma. Per me era inconcepibile il fatto di lasciare Venezia per andare nella capitale.

Non a caso  i tuoi lavori hanno la costante di svolgersi nell’ambito del territorio che ti ha dato i natali.

Si, mi piace molto il tipo di situazione che si sta creando, anche a livello cinematografico, sia nella mia regione che nel Triveneto: ci sono bellissime produzioni organizzate da gente attenta e preparata. Mi piace che si creino queste piccole autonomie capaci di decentrare le arti perché in fondo forniscono più libertà di esplorare altri territori, altri sentimenti, altre lingue, oltre a quelle – tipo il romano – che monopolizzano la pratica cinematografica.

Sia in Mind, Walk, Double Jump and so on che in Carnival emerge quello che potrebbe essere il manifesto della tua arte: in ambedue i lavori a spiccare è la funzione del desiderio, visto come opposizione all’avanzata della sovrastruttura e anche come modo per affermare la centralità dei propri bisogni. Mi può spiegare in che modo attivismo e desiderio traducono la tua ispirazione artistica?

Io sono deleuziana per cui è naturale che il desiderio sia parte fondamentale del mio attivismo. Sappiamo che lavorare nell’arte significa scontrarsi con molte contraddizioni: ci si trova a essere attiviste e per esempio femministe pur stando dentro a istituzioni di stampo patriarcale. Deleuze dice che il desiderio è un’energia fondamentale che spinge sempre all’azione, stimolando a reagire a tutte le determinazioni e i condizionamenti che abbiamo nella vita. Da qui l’importanza di riconoscerli e comunque di continuare ad agirci dentro. Il desiderio è proprio questo, ovvero la spinta fondamentale che ti porta alla costruzione di qualcosa.

Il desiderio come forma di resistenza allo strapotere dello status quo è un concetto molto vicino al pensiero lacaniano.

La diversità sta nel fatto che Deleuze , in particolare, dice che bisogna iniziare a costruire dalle passioni gioiose e non da quelle tristi. Il desiderio sicuramente è gioioso ma è diverso dall’eccessivo entusiasmo che in qualche modo ci pacifica: non è la contentezza a tutti i costi, per cui non ti accorgi più cosa ti succede intorno e per la quale ti preoccupi solo di proteggere te stesso. Al contrario, si tratta di un’energia che ti spinge verso gli altri nel tentativo di fare qualcosa per loro, a manifestare in piazza insieme a migliaia di donne, che è una passione capace di generare qualcosa di più grande di una semplice gioia, oltre a essere – come dicevi tu – una resistenza contro lo strapotere.

A fronte di questi discorsi ed entrando nello specifico della recitazione cinematografica, la tua è svincolata dai concetti di storia e personaggio per riguardare soprattutto il corpo, che diventa spesso incarnazione di un’idea e di un pensiero o, all’opposto, pura fisicità.

Certo, ma credo che il corpo sia unico e che noi pensiamo attraverso di esso. Non sono per la divisione della mente dal corpo, il quale, così facendo è relegato al solo istinto e al movimento. Ovviamente, le linee e i segni che un regista ti può dare sono importanti però questi possono nascere solo dal proprio corpo, dall’essere nel mondo, dalla propria fisicità, dall’essere così e non in un altro modo. Poi, certo, c’è anche da fare del lavoro. Anche l’attore ha una sorta di multistabilità percettiva che va dal suo essere un corpo ad avere un corpo.

In termini pratici, e dovendo per forza di cose banalizzare, ti chiedo quale sia lo scarto pratico che differenzia il lavoro che compi rispetto alla performance da quello operato per entrare in un personaggio?

Tra cinema e performance cambia tantissimo. Difficile che la seconda sia riferita a un personaggio fatto e finito. La performance intesa come atto è molto legato a un’azione mentre il cinema è – finché non arriviamo a l’Addio al linguaggio teorizzato da Godard – molto legato alla narrazione. L’aspetto della “presenza” ha invece un suo peso in entrambi i casi, ed è questo uno dei punti di contatto tra le due attività. Per il resto la diversità esiste perché nel cinema il lavoro è comunque sul personaggio e dunque sul segno.

A un cinema italiano che per tradizione è costruito sulla “maschera” tu offri una specificità in cui è il corpo a essere protagonista e Piccola Patria ne è uno splendido esempio. Stando così  le cose, mi viene da dire che il tuo modo di “essere e di stare” davanti alla macchina da presa fatichi più degli altri a trovare posto nel nostro cinema.

Ma certo. Parlavo l’altro giorno con Angela Gorini- aiuto regista del prossimo film di Rossetto – che ha un background simile al mio, e dicevamo che spesso gli attori di cinema – anche conosciuti – fanno teatro ma si impegnano in lavori di repertorio, di parola, legati alla tradizione, però difficilmente si tratta di ruoli che richiedono doti di performer. Per questo sono contenta che abbia iniziato a fare cinema un’artista come Silvia Calderoni, la cui fisicità dirompente la rende una figura di disturbo in grado di cambiare le coordinate di un certo tipo di linguaggio. Ciò detto, il mio modo di concepire l’attorialità è difficile per un certo tipo di cinema, per questo lavoro principalmente per Alessandro. Non per niente.

L’esordio con Piccola patria è del tutto coerente con quello che sarebbe stato il tuo percorso artistico. Anche a rivederlo oggi, quel film rimane un’opera clamorosa per linguaggio, recitazione e attualità di contenuti. Come ci sei arrivata? 

Uhm, si tratta di un percorso molto divertente perché nel 2012 avevo iniziato a occuparmi di performance e a studiare teatro, lavorandovi però come tour manager e produttrice. Questo, fino a quando un amico conosciuto alla scuola di teatro mi ha invitato a fare un provino. Ero in un momento della mia vita in cui tendevo a boicottarmi, così all’inizio ho rifiutato poi, mesi dopo, la stessa persona mi ha richiamato spronandomi a presentarmi e anche in quella occasione non sono andata. La terza volta è stata decisiva: stavo nuovamente per declinare, ma quando mi hanno detto che non avevano trovato nessuno ho deciso di farlo. Non stavo neanche molto bene ma ha funzionato. Insomma, tutto è iniziato da una poca convinzione da parte mia (ride, ndr).

Il film alterna uno stile semi documentaristico a momenti di totale straniamento in cui la macchina da presa riesce a raccontare sensazioni, stati d’animo e soprattutto il clima dell’Italia contemporanea. Considerato che come attrice sei estremamente consapevole di ciò che avviene sul set, anche in termini di spazio, come ti sei mossa all’interno di esso e quale sfide hai dovuto affrontare?

Alessandro è molto bravo nel guidare gli attori nel mondo del film, che poi  coincide con il suo. Lui è stato artefice di un processo naturale nel quale senza molte parole, né indicazioni, ci venivano date delle pillole sul da farsi. Ci diceva delle cose, sapendo con chi stava parlando: avendomi studiata prima di cominciare a girare, sapeva che una certa cosa metteva in moto reazioni che in qualche modo mi collegavano a Renata, il mio personaggio, e all’altra attrice, ovvero Maria Roveran. Come detto a suo tempo, era come se ci avesse dato degli stupefacenti che a un certo punto ti salivano dentro. Oltretutto venivamo calate in situazioni reali in cui non potevi dire di fermare la cinepresa; questo ti costringeva ad agire nella consapevolezza che gli altri non sapevano ciò che stava succedendo; si ritrattava di momenti irripetibili di cui bisognava approfittare. Ci sono state delle prove ma insieme ad Alessandro abbiamo fatto molta ricerca anche durante il set.  Aggiungo che un materiale importante del lavoro attoriale è  quello offerto dalla scrittura: in entrambi i film di Rossetto la sceneggiatrice Caterina Serra ha lavorato molto sul testo a partire da come la parola poteva essere detta in relazione ai corpi. Il suo apporto e’ stato indispensabile.

Le vostre performance restituiscono i personaggi in maniera vitale e direi quasi ferina, nel senso che ciò che appare si manifesta senza alcun filtro e arriva allo spettatore in maniera molto forte. Sempre a proposito di Piccola patria: il contesto provinciale, l’irrequietezza dell’umanità e anche lo stile mi hanno ricordato certo cinema americano degli anni Settanta. In particolare, il ribellismo giovanile di La rabbia giovane di Terrence Malick. Sei d’accordo con questo pensiero, e ancora quali sono i tuoi modelli cinematografici, le tue attrici di riferimento?

Caspita che domandona! (ride, ndr). Allora, alla prima domanda dico che una cosa è certa: Alessandro è appassionatissimo di Malick, l’ha nominato spesso in quel periodo, quindi sicuramente ci sono state reminiscenze di quel cinema. Poi, lui si è formato a Parigi, per cui ha tutto un altro tipo di sguardo, più europeo e internazionale. Sull’aspetto della rabbia giovanile: è un tema che a me piace tantissimo perché, tra l’altro, rispetta anche la chiusura culturale e linguistica presente in territori come il Veneto, da questo punto di vista diventati sempre più soffocanti. Anche se Piccola Patria si parla di albanesi, e cioè di una generazione di emigranti appartenenti al passato, il Veneto non è cambiato: da questo punto di vista il film non ha perso un briciolo della sua attualità. Il racconto di queste ragazze che pur non avendo consapevolezza culturale della loro esistenza ne sentono e ne vivono comunque le contraddizioni e l’intolleranza, assorbendole dai loro genitori e dalla società, rende la storia davvero completa e contemporanea. Infine, per quanto riguarda i miei modelli, ci sono attrici che mi piacciono moltissimo ma che non posso considerare dei modelli perché sono inimitabili per me che devo fare i conti con il mio essere nel mondo corporeo, con le mie scelte di vita e con le tante cose che non mi faranno mai avvicinare a quel tipo di virtuosismo. Posso comunque nominarne alcune: Jean Seberg mi piace moltissimo e Meryl Streep è davvero incredibile. Tra le italiane direi Alba Rohrwacher.

Stai per girare Effetto domino in cui non solo ritroverai Alessandro Rossetto ma anche buona parte delle persone che avevano partecipato al suo film precedente. È inutile chiederti quale sia il tuo ruolo e di cosa tratti il film anche se, visto la sua fonte d’ispirazione (L’omonimo romanzo di Romolo Bugaro, ndr) si presume sia un’opera altrettanto forte come la prima. Piuttosto, mi piacerebbe conoscere le sensazioni su quello che si può considerare un vero e proprio ritorno a casa.

Come dici bene tu, con Rossetto è un po’ come tornare a casa. A lavorare in questo film saranno attori, operatori, produttori, la stessa Ferri e alcuni aiuto registi già presenti in Piccola patria. A quel tempo c’è stata grandissima sintonia, eravamo una grande famiglia e, dunque, un ambiente di lavoro ideale che sono felice di ritrovare. Rispetto a quell’inizio, ognuno di noi ha fatto un percorso diverso, in altri ambiti, con altri registi, per cui sarà curioso ritrovarsi sul set e dentro un’altra storia. Tra l’altro, penso che tutti ricordiamo le dinamiche di Piccola patria, per cui bisognerà stare molto attenti a non replicarle. Di Effetto Domino posso solo confermare la tua sensazione, dicendoti che si tratta di una storia molto forte e dura.

Hai avuto il privilegio di frequentare l’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Mi piacerebbe concludere con un ricordo di quella esperienza.

In effetti, mi sono sentita privilegiata, perché La sedia della felicità è stata davvero una reunion di tutti i suoi affetti: ognuno di quelli con cui Mazzacurati aveva collaborato è entrato a far parte del film. Trovarmene coinvolta è stata un grande regalo, perché per me, invece, era la prima volta: quando l’ho incontrato stava dando tutto quella che aveva, e sul set era di una generosità e di una tenerezza incredibili. Ho questo ricordo di lui e non posso che esserne felice.

Le foto presenti nel seguente articolo sono state gentilmente concesse da Federica Trevisan.

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