Il divo, un film biografico del 2008 scritto e diretto da Paolo Sorrentino, sulla vita del senatore a vita Giulio Andreotti fino agli anni novanta. Con Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Carlo Buccirosso, Paolo Graziosi. Il titolo del film, che appare per esteso all’inizio del film, ossia Il divo – La spettacolare vita di Giulio Andreotti, deriva dal soprannome dato ad Andreotti dal giornalista Mino Pecorelli, ispirandosi al titolo autoimpostosi da Gaio Giulio Cesare. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2008, si è aggiudicato il premio della giuria, ricevendo inoltre numerosi riconoscimenti italiani e internazionali, tra cui anche una candidatura ai premi Oscar 2010 nella categoria miglior trucco. Le musiche originali del film sono state composte da Teho Teardo, già collaboratore di Sorrentino per L’amico di famiglia. Oltre alle tracce di Teardo sono presenti diversi brani di repertorio, che spaziano dalla musica classica alla musica pop, elettronica e rock, contemporanea e dell’epoca. Giulio Andreotti ha visto il film in anteprima in una proiezione privata; queste sono state le sue parole: «è molto cattivo, è una mascalzonata, direi. Cerca di rivoltare la realtà facendomi parlare con persone che non ho mai conosciuto». Sorrentino al riguardo ha commentato: «Andreotti ha reagito in modo stizzito e questo è un buon risultato perché di solito lui è impassibile di fronte a ogni avvenimento. La reazione mi conforta e mi conferma la forza del cinema rispetto ad altri strumenti critici della realtà».
Sinossi
A Roma, all’alba, quando tutti dormono, c’è un uomo che non dorme. Quell’uomo si chiama Giulio Andreotti. Non dorme perché deve lavorare, scrivere libri, fare vita mondana e, in ultima analisi, pregare. Pacato, sornione, imperscrutabile, Andreotti è il potere in Italia da quattro decenni. Agli inizi degli anni novanta, senza arroganza e senza umiltà, immobile e sussurrante, ambiguo e rassicurante, avanza inarrestabile verso il settimo mandato come Presidente del Consiglio. Alla soglia dei settant’anni, Andreotti è un gerontocrate che, equipaggiato come Dio, non teme nessuno e non sa cosa sia il timore reverenziale. Abituato com’è a vedere questo timore dipinto sul viso di tutti i suoi interlocutori. La sua contentezza è asciutta ed impalpabile. La sua contentezza è il potere. Col quale vive in simbiosi.
Quando Sorrentino era ancora Sorrentino, il suo stile manieristico e barocco non era mai fine a se stesso, ma essenza di un cinema atto a svelarci e a rappresentarci, nel bene e – anzitutto – nel male. Il ritratto di Andreotti è il ritratto di un paese dove non esiste più differenza tra politica e criminalità, tra chi dovrebbe costruirne le fondamenta e chi opera per farne materia per la propria brama di ricchezza e di potere. Il regista campano ha voluto accendere i riflettori sui rapporti che Andreotti ha intrattenuto, durante gli ultimi anni della sua vita politica attiva, in particolare: con la sua corrente (c.d. andreottiana). Bella, al riguardo, la scena dell’ingresso – a casa dell’attuale senatore a vita (a suon di fischiettii che tanto ricordano le musiche di Morricone in alcuni celebri Spaghetti Western) – dei suoi più fedeli e “illustri” esponenti, così come divertentissima è pure la grottesca caricatura dell’onorevole Paolo Cirino Pomicino; con i contestatori, nei cui confronti sembra che il divo Giulio sapesse molto bene come comportarsi: nei casi più innocui, buttandola sull’ironia (forse la sua arma più nota, ma, alla lunga, irritante pure per sua moglie). Nei casi più delicati e fastidiosi, sfoderando gli artigli: cioè avvalendosi del fior fiore degli avvocati (quando si trattava di difendersi nei canali ufficiali), ovvero menzionando il suo leggendario archivio privato (quando si fosse potuto difendere sfruttando canali ufficiosi); con il Potere, certo gravoso e opprimente (il fantasma di Moro forse lo perseguiterà fino alla tomba), ma, a quanto pare, l’unica cosa ad averlo tenuto in vita (lui, Giulio Andreotti, di cui tutti pronosticavano la scarsa longevità). D’altronde – diceva lui, col suo solito proverbiale sarcasmo. Sorrentino non si ferma mai, danza sul corpo di Andreotti fischiettando, perfettamente a suo agio. Sconfina nell’onirico e nel surreale, lo sospende e lo interrompe talvolta con un accenno di taglio documentaristico introducendo immagini sgranate, quasi volesse distaccarsi e rinfrancarsi dalla verità e la realtà politica ma sempre lucidamente presente di fronte all’oggettività storica e sociale del nostro paese. Sfiora il manierismo quando lascia eccessivo spazio ai gesti e ai toni di voce di Servillo, costretto a bisbigliare per tutto il film imballato nella gobba e ammiccante dietro la maschera del trucco. E abusa di ricercatezza con una messa in scena estremamente schierata e feroce a dispetto dell’enigmaticità del personaggio. Poi rimedia con una colonna sonora bella, aggressiva e significativa che va dalla technopop targata anni ’80 di “Da Da Da”, al flauto di Vivaldi, da Bruno Martino alle seducenti track scritte da Teho Teardo. Si infarcisce di troppi dialoghi epici, come le frasi e aforismi senza tempo pronunciati da Andreotti e da chi gli sta dintorno: una battuta via l’altra come schema difensivo dagli attacchi dei delatori. Manca solo quella più famosa: “Il potere logora chi non ce l’ha”, presa in prestito in realtà da Talleyrand, diplomatico francese del XVIII secolo. Il Divo è un frammento barocco, come la scenografia che a volte circonda le vicende con un’incisività visiva che entra, alla maniera di un vorticoso refrain antropologico, nella nostra memoria e lì si fissa. Coesa con l’incedere del soggetto, a fianco di uno stato emotivo ora misticheggiante ora filosofico, la direzione artistica è una riproduzione amplificata dell’arcano e del contraddittorio.