Nel 2015 gli alieni sono sbarcati sulla Terra e ne hanno preso il controllo attraverso una dittatura che reprime in maniera violenta qualsiasi tipo di resistenza. Nove anni dopo siamo in una Chicago ormai in rovina. La popolazione vive sotto legge marziale, governata dall’oscurità da due diversi ranghi di esseri alieni: i Legislatori, che comandano, e i Cacciatori, mercenari alti due metri che hanno il compito di far rispettare la legge. Il tutto è visto attraverso gli occhi di due fratelli, Gabriel (Ashton Sanders, il giovane protagonista di Moonlight) e Rafe (Jonathan Majors), che, separati per anni dopo l’inizio dell’occupazione, si riuniscono quando il maggiore dei due si mette alla guida di un manipolo di dissidenti per provare a porre fine alla tirannia dei Legislatori. Ma l’ambiguo detective collaborazionista William Mulligan (John Goodman) è sulle loro tracce.
Rupert Wyatt, già dietro la macchina da presa nell’ottimo L’alba del pianeta delle scimmie, cita come sue maggiori influenze per questo Captive State L’armata degli eroi di Jean-Pierre Melville e La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, e se l’accostamento può a prima vista risultare ardito basta sostituire idealmente la componente sci-fi di questi enormi alieni che tiranneggiano Chicago con il Terzo Reich o le truppe dell’Impero Coloniale Francese e il gioco e fatto. Appare evidente, infatti, come Wyatt sia molto più interessato all’analisi dei meccanismi che si innescano in una società costretta a resistere a un qualsiasi tipo di regime che non alla reale possibilità che quest’ultimo provenga da altri mondi. Non è affatto un caso che i Legislatori siano evocati di continuo ma mai mostrati, a evidenziare così tanto la natura inquietantemente invisibile del Potere – un po’ come il Management nella serie TV ad alto tasso distopico Counterpart – da suggerire quasi la possibilità di un epilogo con un twist narrativo alla The Village. Che, va detto, non ci sarà. O meglio, c’è, ma è assai più prevedibile di quello che chiudeva il capolavoro di Shyamalan, anche se, ai fini della riuscita del film, questo non è affatto un problema.
Perché il fascino di Captive State risiede più nella costruzione di un racconto che procede per accumulo continuo di ellissi che non nel suo finale. La gestione della tensione attraverso il “non detto” – o meglio il “non mostrato”, con tutta la parte più esplicativa del film concentrata in una manciata di minuti iniziali – occhieggia infatti a certo montaggio cubista tipico di Paul Greengrass, pur senza raggiungerne, ovviamente, la grandiosità. Ciò che invece è davvero riuscito è il vagare continuo e solo apparentemente ondivago della macchina da presa di Wyatt da un personaggio all’altro, senza mai focalizzarsi realmente su nessuno di loro. Una forma di storytelling per immagini senza alcun dubbio ambiziosa e non priva di rischi, che però restituisce bene il senso di spaesamento provato dai personaggi.
Ora, chiunque si aspetti da Captive State il classico blockbuster a tema “invasione aliena” è facile che rimanga deluso, ma sia il budget di “soli” 25 milioni sia la totale assenza di star che, da sole, possano salvare il pianeta tra una battuta scherzosa e l’altra, sono più che sufficienti a suggerire come il film di Wyatt non giochi proprio nello stesso campionato di un Independence Day. Perché il sottotesto più fieramente politico di Captive State lo si ritrova proprio nella sua natura corale, che, priva di un eroe ben definito, individua nella coalizione l’unica forma di salvezza possibile. Stupisce, semmai, la tiepida accoglienza della critica d’oltreoceano di fronte a un film che ha, se non altro, il coraggio di approcciare un genere dai codici talmente rigidi da risultare spesso castranti da un’ottica inedita, vicina per più di un verso – non solo quindi per la presenza di John Goodman – a quel 10 Cloverfield Lane che, giusto tre anni fa, raccontava di un’invasione aliena vissuta dall’interno di un bunker sotterraneo. Captive State è, in definitiva, un film che richiede un minimo di pazienza allo spettatore. Ma che ha anche il raro pregio di dargli fiducia permettendogli di “unire i puntini” da solo ed evitando di sedurlo con esplosioni un tanto al chilo e un utilizzo indiscriminato di CGI selvaggia. Una piacevole sorpresa.