La sezione Europe, Now! si è confermata occasione valida per analizzare meglio le parabole artistiche di cineasti del Vecchio Continente non così noti, forse, al grande pubblico, ma capaci di esprimere una visione del cinema personale e moderna.
Nel caso dello spagnolo Alberto Rodríguez, il suo La isla mínima aveva rappresentato nel 2014 una scoperta non da poco, per chi scrive: noir livido e disincantato, i cui sagaci sottotesti politici finivano per arricchire un plot di per sé avvincente sia per l’ambientazione che per l’ottima caratterizzazione dei personaggi. Il 37° Bergamo Film Meeting ci ha pertanto permesso di mettere ulteriormente a fuoco i tratti specifici di una filmografia arrembante, vivace, in cui il gusto della narrazione sempre si adagia su uno sguardo penetrante, nei confronti degli elementi localistici come anche di altre peculiarità, impresse sulla pellicola con precisione e disinvoltura.
Tra gli altri titoli della retrospettiva quello che ci ha maggiormente colpito è senz’altro 7 Virgenes (2005), frutto di una sceneggiatura realizzata a quattro mani con Rafael Cobos López, giunto a Bergamo per introdurre il film e nativo anche lui di Siviglia, la città dove i due hanno trovato naturale ambientare una così effervescente narrazione cinematografica. Ritratto di adolescenze inquiete e di quartieri popolari densamente popolati, in cui sembra volerci un attimo per passare dal calore del proprio clan a qualche azione criminale nei confronti di rivali o di passanti incrociati per caso, l’incalzante lungometraggio trae spunto dalle 48 ore di libertà concesse a uno dei protagonisti, Tano, rilasciato dal carcere minorile presso il quale sta finendo di scontare una condanna, così da poter partecipare al matrimonio del fratello maggiore.
Il suo migliore amico, Richi, attende però il ragazzo per sfruttare quel tempo limitato all’insegna dell’eccesso. E le conseguenze non tarderanno ad arrivare…
Gioventù bruciata in salsa iberica. Con uno stile tanto accattivante quanto aderente all’esuberanza della cornice antropologica, Alberto Rodríguez ha saputo qui impostare un sovreccitato racconto di formazione che procede con brio, alimentandosi dell’insofferenza dei protagonisti e miscelando ad arte il polveroso realismo dell’ambientazione, le tinte vivaci relative a occasioni d’incontro in famiglia o in comitiva, ed accenni marginali ma incisivi a determinate mitologie giovanili: fino a sfiorare i contorni del “realismo magico”, percepibile con immediatezza allorché l’immagine evocata da un piccolo rito scaramantico si materializza beffardamente (e tragicamente) in scena, condensando il dramma nell’apparizione di un fantomatico orso.