La tenerezza, un film del 2017 diretto da Gianni Amelio. Il lungometraggio è liberamente tratto dal romanzo di Lorenzo Marone La tentazione di essere felici, pubblicato nel 2015. Ambientato nella Napoli borghese, vede come attori protagonisti Renato Carpentieri, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Elio Germano e Greta Scacchi. Il film ha ottenuto 7 candidature e vinto 4 Nastri d’Argento, 8 candidature e vinto un premio ai David di Donatello. In Italia al Box Office La tenerezza ha incassato nelle prime 5 settimane di programmazione 2,1 milioni di euro e 1 milioni di euro nel primo weekend.
Sinossi
Lorenzo, che in passato è stato un famoso avvocato, vive in un bel palazzo antico al centro di Napoli. Dopo qualche infortunio professionale, Lorenzo è caduto in disgrazia e anche la sua vita familiare ne ha risentito, facendogli negare apparentemente senza ragione l’affetto ai figli Saverio ed Elena. Egoista e brusco, compagno solo del nipotino Francesco che sottrae alla scuola per educarlo alla sua maniera, Lorenzo si ritrova a cambiare grazie all’arrivo nell’appartamento di fronte al suo di Fabio e Michela, una giovane coppia con due bambini piccoli che arriva dal Nord. In breve, Lorenzo mette da parte il suo essere scorbutico e diffidente per diventare come uno di famiglia finché una sera succede qualcosa che sconvolgerà l’esistenza di tutti.
“La felicità non è un traguardo da raggiungere, ma una condizione da ritrovare voltandosi indietro: non la trovi guardando in avanti, ma volgendo le spalle“: questo, in sintesi, il condensato focale della nuova intensa fatica cinematografica che vede il ritorno alla regia e come sceneggiatore di Gianni Amelio. Come in una foto che riesce a mostrare tre punti focali posizionati a distanze differenti, ma tutti riferiti a un medesimo contesto, Amelio riesce a raccontarci altrettante storie che riguardano due nuclei familiari accomunati dal caso e da due appartamenti confinanti all’interno di un antico caseggiato di lusso nel centro cittadino di una Napoli moderna, dinamica e veloce, lontana dai soliti abusati luoghi comuni. Il regista, con la sua proverbiale elegante dolcezza – discostandosi dal libro di Lorenzo (come il protagonista) Marone, facendone una propria e personale creatura – ci racconta di rapporti familiari e affettivi difficili, di sentimenti provati, dimenticati, lasciati, rovinati, messi da parte, ripresi. Su tutti la figura del padre, che rimane stagliata nella sequenza finale, quella in cui la riappacificazione è una mano che si poggia sulla quella della figlia, perché lui finalmente torna appunto a casa. Finalmente si è girato indietro. Film di sofferenza, raccontato con la leggerezza tipica dell’autore, capace di toccare il cuore facendo parlare gli sguardi, i piccoli gesti, gli sbuffi, i vicoli strettissimi di Napoli. Attori bravissimi e ispirati, diretti da un maestro del cinema contemporaneo che ci offre un altro gioiello della sua visione di vita e di umanità. Con tenerezza, come ama lui, oltre la tragedia. Come un lenitivo. Perché quella mano posata nel finale è semplicemente un lampo di speranza e di tenerezza ritrovata. Un grande Renato Carpentieri inscena tutto ciò con un’interpretazione empatica, per lunghi tratti ipnotica, ma tutto il cast è in stato di grazia e sembra aver colto profondamente il senso del racconto: uno sguardo tenero ma spietato sui rapporti umani, sulle incomprensioni calcificate dal tempo, sui silenzi e sui rimpianti, raccontato con esplosioni narrative da grande cinema e con stilemi orientaleggianti (l’analisi della famiglia disfunzionale in Hirokazu Koreeda, le visioni soprannaturali in Kurosawa Kiyoshi, la scarnificazione e la struttura del racconto morale tipica del grande cinema classico del Sol Levante) che si adattano sorprendentemente alla poetica di “transizione” di Gianni Amelio. Il film è impreziosito da abili accorgimenti scenografici e narrativi che arricchiscono ulteriormente la ricercatezza delle inquadrature: come la scelta di ambientazioni simboliche e funzionali (lo studio, l’autobus, le scale, l’ospedale ecc.) e, soprattutto, la presenza di “feticci” (giocattoli premonitori, chiavi, oggetti personali) che rimandano al privato dei personaggi denotandone caratteri, nevrosi e persino il destino. Anche i temi dell’immigrazione e delle “Babilonie” linguistiche che ci separano dal “diverso” sono affrontati per l’ennesima volta dal regista, anche se solo a supporto della vicenda principale. E la Napoli rappresentata è ben lontana dagli abusati luoghi comuni, e per una volta scevra da facili letture ideologiche. Insomma, le ossessioni ricorrenti di Gianni Amelio ci sono tutte, quasi a ricordarci che ogni film del regista è una tappa di un lungo, coerente, strepitoso viaggio nella storia del nostro Paese e in quella del suo meraviglioso cinema.