Negli Stati Uniti la piaga della droga è tornata ad essere al centro dell’attenzione di media e dell’opinione pubblica. Sui giornali, in televisione, nelle aule del congresso, ma anche nelle librerie, dalla recente pubblicazione dell’ultimo capitolo (Il confine) de la trilogia del Cartello, saga bestseller dedicata dal romanziere Don Winslow, che suggella un interesse verso il problema di cui era arrivata eco all’ultima Festa del cinema di Roma. In cui Julia Roberts con Ben is Back e Timothée Chalamet in Beautiful Boy avevano raccontato la dipendenza da sostanze stupefacenti della gioventù americana.
Pur rimanendo nell’ambito dello stesso argomento, rispetto ai titoli appena menzionati, Cocaine – La vera storia di White Boy Rick sposta il suo interesse dal calvario delle vittime all’opportunismo dei carnefici, raccontando – nella Detroit del 1984 – l’epopea criminale di Richard Wershe Jr, «White Boy Rick», diciassettenne determinato a salvare genitore (un Matthew McConaughey in versione proletaria) e sorella dai propri fantasmi facendo l’informatore dell’FBI e smerciando cocaina.
Regista dell’ottimo ’71 Yann Demange continua a occuparsi di adolescenze perdute e di genitori in disarmo, confermando l’ispirazione realistica (fatti ed esistenze sono tratti dalla cronaca americana) e le capacità di storyteller, soprattutto quando si tratta di far scorrere la storia senza perdere di vista la caratterizzazione dei personaggi. In questo caso l’ambizione era quella di riuscirci con una produzione statunitense, che seppur indipendente in termini di budget non lo era sul piano dell’impegno produttivo e del cast artistico, potendo contare su un produttore come Darren Aronofsky e su attori del calibro di Jennifer Jason Leigh e Bruce Dern, oltre che lo stesso McConaughey.
Epigono del George Jung di Blow e del Barry Seal di American Made (in italiano Barry Seal – una storia americana), il Rick di Cocaine ne segue le orme in un contesto egualmente romanzesco e spregiudicato ma privo dello spirito ludico e della leggerezza che caratterizzavano le avventure dei lestofanti interpretati da Depp e Cruise. Detto che l’empatia dei personaggi, e di quello di McConaughey in particolare, è destinata a fare proseliti soprattutto tra gli amanti del genere, a venire meno è la capacità del film di mantenersi coerente a uno sviluppo narrativo che si dipana attraverso un cospicuo numero di fatti e di personaggi. Sottratto al minimalismo spazio temporale e all’All Night Long di ‘71 e chiamato a confrontarsi con una storia di ampio respiro, Demange fatica a tenerne il passo degli eventi, dando conto delle scelte e delle contraddizioni del protagonista con una profondità e uno studio psicologico talvolta più abbozzato che approfondito. A risentirne è soprattutto l’epica del racconto, decisiva nel trasformare una vita qualunque come quella di Richard Wershe Jr in materia cinematografica.