Eyes Wide Shut è un film del 1999 diretto da Stanley Kubrick, l’ultima opera diretta dal regista.
È anche l’ultima pellicola girata insieme dalla coppia Nicole Kidman–Tom Cruise.
Tratto dal romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler, il film uscì postumo negli Stati Uniti d’America il 16 luglio 1999 e fu presentato in anteprima europea alla 56ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 1º settembre 1999.
Nel novembre del 1999 la Warner Bros. dichiarò pubblicamente che con un guadagno globale di 155.655.000 $, Eyes Wide Shut si assestava come il maggiore successo commerciale di Kubrick.
Il clamore e la curiosità morbosa intorno al progetto del regista, di nuovo al lavoro nove anni dopo Full Metal Jacket (le riprese di Eyes Wide Shut iniziano il 4 novembre del 1996 e si concludono il 3 febbraio 1998), il fatto di avere scelto come protagonisti due star come Tom Cruise e Nicole Kidman, ai tempi sposati anche nella realtà (si sarebbero separati a breve, restando questo film l’apice della carriera in coppia), nonché la sua morte improvvisa meno di una settimana dopo averne completato il montaggio, hanno fatto del suo ultimo film, prima ancora di essere visto, uno dei più chiacchierati e attesi della storia del cinema.
Bill, un medico senza alcuna qualità, entra in crisi quando la moglie Alice gli racconta i suoi sogni di tradimento e quando una sua paziente gli confessa il suo amore davanti al cadavere del padre. Bill si farà tentare da una prostituta, parteciperà a un festino orgiastico in maschera dove verrà scoperto e per così dire salvato da una donna misteriosa. È la stessa di cui osserva turbato e conturbato il cadavere all’obitorio?
Di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Enrico Ghezzi disse: “È il film più lavorato e complesso che sia dato di vedere, un film che richiede espressamente un ‘di più’ di uno sguardo attento.”
Chiusi o aperti che siano gli occhi, ovvero sempre entrambi nello stesso spazio (tempo), Kubrick si misura ogni istante con tutto lo spazio di cui può alluderci il cosmo, uscendo dal tempo senza esservi mai entrato. In Fear and Desire (Paura e desiderio, 1953), altro titolo doppio di opposti, Kubrick si propone come passeggero inane dell’astronave Discovery a ogni istante del viaggio, viaggio fermo e infatti contenuto figurativamente dopo l’inizio da prima della storia. L’attesa attonita e estenuante in 2001: A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio, 1968) manifesta un’assoluta ignoranza, stipando migliaia di anni e di visioni in una visualità da telefilm d’epoca minimo e minimale. Tutto può essere oltrepassato senza finire. La frequenza dell’occhio wide/shut è la stessa dello sbatter d’occhi a bordo della Discovery, pone ogni apparenza a servizio di una volontà leggero/pesante di sapere volere danzare dove la conoscenza è pura stupefazione e Hal 9000, il robot troppo (poco) umano, lascia tutti e tutto nella situazione dell’uomo-arco, David Bowman, che scoccando la freccia sconta il rischio assoluto di trovare e inchiodare se stesso, tutti lì e il cinema con tutti sull’orlo della caverna che attrae e lascia cadere, delude senza illudere, con il piede indeciso se entrare. Il proprio dell’umano risulta essere l’esitazione da “schermo colle”, non tanto la scelta razionale o irrazionale, ma paura e desiderio nel percorrere il crinale (per esempio vita/morte o veglia/sonno), inizio e fine di un cartesianesimo quasi rutilante. Il sogno è sempre almeno doppio, si specchia in se stesso, e questa vaghezza, questa mossa a vuoto è quella del fantasma che ci investe nell’atto stesso in cui ci indossa. L’occhio non vede quello che vede. No trespassing. (Lorenzo Esposito, Enrico Ghezzi)
Partendo dal romanzo di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, Kubrick realizza un’opera che si dimostra imperiosa sin dall’incipit, dove ascoltiamo il bellissimo walzer di Shostakovich, eco galante di una marcia funebre che ci ricorda tanto Fellini e che accompagnerà tutto il film. La colonna sonora infatti riveste sempre un’importanza fondamentale nei film di Kubrick, come dimostrato qui da quegli angoscianti tocchi di pianoforte che ci entrano nell’anima nei momenti di massima tensione del film. Ad essere “celebrata” in questo film è infatti la morte della moralità, il crollo di un impero etico (il matrimonio) che (sembra dirci il regista) ha deboli fondamenta ed è sottoposto (quindi cede) a quei mille ostacoli (tentazioni) che circondano l’esistenza dei protagonisti. Non è infatti un caso che il motore scatenante del plot sia il “doppio” tradimento dei rispettivi coniugi in quei bellissimi, eleganti, perfetti quindici minuti iniziali di puro cinema. Kubrick sfiora vette hitchcockiane nel mettere in scena la tensione, dimostrando una pulizia formale e un’essenzialità espositiva che farebbero gioire il grande maestro inglese del brivido. Opera ultima di un regista che ha chiuso in bellezza la propria immensa carriera cinematografica. Un film sensazionale, sottile, complesso, delicato, psicologico e psicanalitico, emozionale ed emozionante, uno dei migliori di fine millennio.