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Con I villeggianti Valeria Bruni Tedeschi torna a parlare di sé in un’autobiografia immaginaria con molti elementi di realtà

Valeria Bruni Tedeschi torna a parlarci di sé come regista con un dramma borghese nelle intenzioni, reso poco credibile da una sceneggiatura debole e una recitazione sopra le righe

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Valeria Bruni Tedeschi torna a parlarci di sé come regista, a raccontarci le sue solitudini, il lutto per il fratello, l’ingombrante famiglia d’origine, le delusioni sentimentali ingestibili. Un’autobiografia immaginaria è la definizione che lei ha fatto sua, ma di immaginario non c’è molto. Troppi sono gli elementi reali, a partire dagli stessi attori: la vera figlia adottiva della Tedeschi e di Louis Garrel qui è Celia, la bambina sua e del suo amore, Luca, un irrigidito Riccardo Scamarcio che la lascia fin dalla prima scena; la madre è al solito quella vera (Marisa Borini, pianista davvero, che qui suona ininterrottamente il piano); l’anziana zia è l’anziana zia della vita. L’ospite della villa, Nathalie (Noémie Lvovsky), è la co-sceneggiatrice del film e nel film. Sì, perché durante le due ore piene (centoventicinque minuti!), la protagonista Anna-Valeria cerca di mettere ordine a una sceneggiatura che, all’inizio, la commissione finanziatrice le ha rifiutato, con una motivazione che non possiamo che condividere: “È il suo quarto film e continua a ripetere sempre la stessa storia. Si rende conto che la sceneggiatura è debole?“.

La Bruni Tedeschi riferisce come modelli addirittura Goldoni, Checov e Gor’kij, da cui copia il titolo, I villeggianti (del 1904). Ma per un dramma borghese non basta ritrarre un interno borghese, per denunciarne le miserie e le piccinerie non è sufficiente rinchiudere in uno spazio ristretto, se pure bello come questa villa francese a strapiombo sul mare, un gruppo di famiglia sconclusionato e a tratti autistico dal punto di vista relazionale. Le solitudini non si incontrano (non si scontrano) mai e non generano dramma, né commedia. Ciascuno è prigioniero dei propri disinganni; anche la servitù, rappresentata in parallelo (ma non siamo dalle parti di Downton Abbey, tanta è l’estraneità tra i due mondi) è carica di rimpianti e rivendicazioni nei confronti dei padroni e della vita.

Insostenibili le prese di posizioni su cosa è la sinistra e cosa è la destra, stereotipi che ci saremmo volentieri risparmiati, soprattutto oggi. Su tutto aleggia il fantasma del fratello, nelle menti e nelle visioni, che ci fa intuire quanto ancora una volta la regista abbia voluto usare il cinema terapeuticamente. Tanto che Valeria o Anna continua a scrivere quello che vuole, nonostante lui, in sogno, le dica di non voler essere evocato nel prossimo film, e anche la sorella, Elena (una Valeria Golino mai vista così sopra le righe), le proibisca di parlare ancora una volta del fratello. Ma neanche la recitazione della Tedeschi appare un minimo trattenuta. Le è rimasta addosso la risata compulsiva de La pazza gioia e di altre interpretazioni, come se, nel dirigere se stessa, abbia rappresentato il personaggio che altri hanno costruito per lei e non fosse in grado di infondergli autonomia. Ride quando il marito la lascia o quando parla di uno stupro, reale o fantasticato, di cui sarebbe stata vittima da bambina, e ride Valeria Golino mentre racconta un aborto che le ha rovinato la vita. Ovviamente, la falsa allegria si fa pianto, ma non commuove, così come la risata non diverte; inquieta, a tratti annoia, come le cose troppo insistite.

C’è il siparietto carino delle due Valerie, la Golino e la Bruni Tedeschi, mentre cantano insieme Che freddo fa di Nada, in un karaoke stonatissimo presente e promettente anche nel trailer. Cos’è la vita senza l’amore, è solo un albero che foglie non ha più (sono i due versi scritti anche nella locandina). Di solito le canzoni del cinema sono inserite in momenti di climax emozionale, ma qui non c’è progressione emotiva, né individuale, né collettiva, bensì un altalenarsi di euforia e malinconia che destabilizza o lascia estranei. La musica classica, poi, indiscreta, invade le scene, in questa storia che tutto persegue tranne la sobrietà.
Peccato, perché il cast vede anche la partecipazione di Pierre Arditi, e il rincorrersi delle lingue italiana e francese non è male. Sembra quasi il sintomo di un’identità difficile da raggiungere, un conflitto che risale all’origine; e non è la nevrosi che disturba il pubblico, quanto la sua rappresentazione così insistita, dal primo frammento all’ultimo. Diamo ragione al personaggio di Nathalie (una Noémie Lvovsky anche lei responsabile di questa sceneggiatura così sfilacciata) quando dice ad Anna che dopo la visione di un film e del suo in particolare lo spettatore dovrebbe sostare sul marciapiede, accendersi una sigaretta e sentirsi bene. Chi scrive, ha sostato sul marciapiede un po’, ma (ahinoi) solo per pentirsi di aver smesso di fumare.

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