Com’è strano, oggi, lo scorrere del tempo televisivo: basta siano passati appena 40 giorni (la seconda stagione di The Punisher è stata rilasciata il 18 gennaio su Netflix) e infiniti terremoti sono già trascorsi, aggiungendo nuovi significati e nuove (re)visioni all’opera in sé. Sembra allora sempre più difficile per la critica riuscire ad afferrare in tempo il segnale, il metatesto, senza essere inevitabilmente travisati dalla suggestione post-serial.
Come sanno ormai anche le lampade, The Punisher è parte di quel microcosmo di personaggi urbani che Netflix ha trasposto sul piccolo schermo dall’infinito serbatoio di storie, colori e personaggi che è la Marvel Comics, casa editrice talmente “avanti” che oggi fornisce all’audiovisivo materiale talmente attuale da sembrare inverosimile. È forse meno noto che i diritti di tali eroi sono in perenne viaggio, pronti adesso per essere riassorbiti tutti nel MCU trattato dai Marvel Studios personalmente.
Allora Daredevil, Jessica Jones, Frank Castle e compagnia oscura si sono visti troncare bruscamente la produzione delle loro serie, proprio quando alcune stavano carburando (è il caso di questa The Punisher) e quando altre erano arrivate all’eccellenza (Daredevil con la sua terza). E, come si diceva in apertura, è naturale e magari anche fisiologico che questo pesi nel commento all’opera: perché le vicende di Frank Castle sono ben lungi dall’aver trovato un loro naturale finale emotivo nell’ultimo episodio di questa seconda annualità, e la presa di coscienza del Punisher è quindi ovviamente uno sbocco narrativo che era preparato da tutto quanto si è raccontato in questi dieci episodi.
La giustizia secondo Frank, è sempre stato il motto del Punitore: uomo in perenne sofferenza, dilaniato dai suoi fantasmi interiori, divorato da una rabbia che non può conoscere pace, personaggio interessante troppe volte fuorviato che finalmente aveva trovato in Jon Bernthal la giusta e doverosa fisicità. Insieme ad un nuovo mistero e a nuovi comprimari, The Punisher 2 risollevava le sorti di un’opera che all’inizio non era sicura della sua stessa collocazione: pur restando sempre troppo ferma nel suo empasse di ritratto psicologico abbozzato, la serie Netflix giocava su ottime scene d’azione e specialmente in questa la regia gestiva meglio gli episodi, che sfuggivano alla trappola della noia o di una lentezza spaventosa.
Ma appunto, è proprio il percorso di Castle che sembra monco: tutto sembra pronto per sfociare in qualcosa di risolutivo, ma alla fine il triste Frank non è né soldato né guerriero, l’approccio della serie non è né intimista né action. Ma soprattutto, a perdere qualcosa in questo percorso narrativo seriale mozzato a metà è uno dei più affascinanti villain supereroistici apparsi sinora: Billy Russo (Mosaico, nei fumetti) è un’anima in pena, un uomo ferito, una scheggia impazzita che meritava e forse progettava una vita televisiva più lunga, anche in vista della storyline sulla sua perdita di memoria.
Ma è la televisione, bellezza: e la produzione di The Punisher 3 è stata bloccata, così che oggi possiamo avere solo la metà del fascino del personaggio, e la metà delle emozioni, con due personaggi che si riflettono uno nell’altro sperando di riconoscersi come in uno specchio. Peccato.
GianLorenzo Franzì