L’ingrediente segreto: amaro e divertente questo primo lungometraggio del regista macedone (e sceneggiatore) Gjorce Stavreski, che esce soltanto ora nelle sale, pur avendo vinto, meritatamente, il Bergamo Film Meeting dello scorso anno. L’ingrediente segreto è la marijuana che Vele (Blagoj Veselinov), operaio meccanico di un deposito ferroviario di Skopye, inserisce nelle torte preparate al padre (Anastas Tanovski), malato di cancro, in uno stadio alquanto avanzato. Per Vele le medicine, a cui non provvede il sistema sanitario, sono inavvicinabili perché da quattro mesi non vede stipendio e, il tempo che faticosamente, illegalmente, racimola i soldi, sono già aumentate. Non gli resta che utilizzare la droga trovata su un vagone del posto di lavoro: “Solo droga e rock’n roll possono salvarti, fratello” gli dice l’amico Dzhem (Aksel Mehmet).
Ma il vero ingrediente segreto del film è quell’umorismo tipicamente balcanico che fa guarire il padre alla prima fetta di torta e libera lo zio dai reumatismi. I due anziani si ringalluzziscono e se ne fregano della riservatezza; per cui, nel giro di poco, Vele trova la coda di questuanti davanti alla porta di casa: chi chiede il dolce miracoloso per sé, chi per la moglie alcolizzata; e ancora chi vuole fare guarire il nipote dall’omosessualità, chi il figlio dall’alitosi che gli impedisce di trovare moglie. Funziona per superare un esame? E per l’impotenza? Intanto, Vele deve fare i conti anche con gli spacciatori: un capo sbruffone che ragiona di pancia e un unico scagnozzo, sordo, che dimentica di usare l’apparecchio, non sente e non segue gli ordini.
Raccontata così, sembrerebbe solo una storia comica. Invece Stavreski sa alternare i diversi accenti, passando dal gioco alla desolazione, mantenendo una commovente dolcezza di fondo nel raccontare il difficile rapporto padre-figlio, oltre alla sincera dose di rabbia, quando denuncia la privazione sociale di un luogo e di un tempo selvaggi, di cui è stato testimone. Mancava tutto, e la giornata era “una lotta per accaparrarsi quanto più denaro e quanto più potere possibile. Ironicamente, l’umorismo servì da antidoto in quei tempi grigi. La gente imparò a ridere delle proprie disgrazie. Ed è così che nasce la mia storia: come due navi in rotta di collisione, l’umorismo e il dolore si sfidano in duello.”
La sofferenza di questa famiglia spezzata (il fratello e la madre di Vele sono morti di incidente sei anni prima) prevale però sulla sdrammatizzazione, come a dire che si può ridere di lutti, malattie e miseria, sì, ma solo fino a un certo punto. Il tono, nonostante qualche risata, rimane dolente, e gli si accompagna una messa in scena essenziale, di una sobrietà alla Ken Loach, con cui si condividono temi e contenuti. I tempi non sono quelli lunghi di certa filmografia balcanica, anzi, ben misurati, buoni a mantenere l’empatia nei confronti dei personaggi e a contenere umori che variano anche nel giro di poche scene. A conciliare realtà e paradosso, la brutale concretezza del quotidiano con i momenti più surreali. La musica, anch’essa mai invasiva, bensì un sottofondo controllato, discreto.
Auguriamo a Gjorce Stavreski che il premio di Bergamo sia seguito dal successo nelle sale. Che lui e il cinema macedone (di cui non ricordiamo nulla, tranne il bellissimo Prima della pioggia di Milcho Manchevski del 1994, oramai, quindi, piuttosto lontano nel tempo) possano godere di questo periodo abbastanza felice di tutto il cinema dell’Europa orientale.