Interrogare la realtà sulle grandi questioni del nostro tempo per risalire alla radice del problema. A farlo, nel nostro cinema, sono soprattutto quelli che ancora non si arrendono all’evidenza dei fatti e alle molte battaglie (per esempio Daniele Gaglianone, ancora nelle sale con Dove bisogna stare) e poi una fucina di giovani talenti, alcuni già conosciuti, altri in procinto di esserlo, che fanno del cinema uno strumento di indagine e di denuncia. Una di queste speranze è certamente Michela Occhipinti, giunta a Berlino per presentare nella sezione Panorama del Festival Il corpo della sposa (Flesh Out), opera seconda che segna l’esordio dell’autrice romana nel lungometraggio di finzione dopo una lunga militanza in quello documentaristico. Il realtà una delle caratteristiche del film è quella di proporre una terza via ai generi suddetti, in cui rigore antropologico e ricerca sul campo trovano la maniera di esprimersi nella dialettica dei punti di vista e nella coerenza della narrazione, utilizzati per raccontare le vicende della protagonista, ragazza mauritana costretta ad andare in sposa a un marito sceltole dai genitori e perciò obbligata ad aumentare di peso per corrispondere all’ideale di bellezza del futuro consorte.
Negato alla vista dello spettatore, per il fatto di essere ricoperto fino al capo da tuniche e veli, il corpo della protagonista si carica fin dalle prime immagini di una valenza metaforica, diventando l’espressione di una violenza innanzitutto psicologica, poiché la violazione della carne, effettuata mediante l’introduzione forzata del cibo e la conseguente deformazione della silhouette, mina l’identità di Verida (l’esordiente e molto brava Beitta Ahmed Deiche), la quale, cresciuta secondo i canoni estetici e culturali della gioventù contemporanea, viene colpita nelle certezze più profonde della propria femminilità.
Come la Hana di Vergine Giurata anche Verida è vittima di un retaggio tribale che le impedisce di essere padrona del proprio corpo, e come il film di Laura Bispuri anche quello della Occhipinti ne racconta ragioni e conseguenze, compiendo un viaggio al contrario rispetto a quello delle migliaia di persone che fuggono dal proprio paese in cerca di libertà e parità di diritti. Un cinema migrante, dunque, capace di riservarci delle sorprese sul piano della forma. Pur partendo da una base di assoluta realtà, la regista compie su di essa una trasfigurazione che senza perdere una goccia di verità guadagna sia in termini drammaturgici, quando si tratta di sottolineare i tormenti della ragazza attraverso restringimenti, primi piani ravvicinati e contrasti di luce, che poetici, segnalati dalla bellezza delle composizioni e dei colori. Una dimensione, quest’ultima, a cui si affida la Occhipinti per congedare lo spettatore, lasciando che sia lui a immaginare il futuro che attende la protagonista. Un finale a fior di pelle, emozionante e bello come non ce ne sono stati altri qui a Berlino.