Il film della tedesca Angela Schanelec, I Was At Home, But, passato in concorso al 69 Festival di Berlino, inizia con un cane che insegue una lepre in un prato.
Poi lo ritroviamo in un casolare abbandonato e diroccato che sta mangiando la preda. Poco dopo sentiamo il rumore di zoccoli ed entra in scena un asino che lo osserva, si muove nel casolare e si mette davanti a una finestra a guardare fuori. Il cane si avvicina a lui e dorme. Da qui iniziano una serie di scene silenziose in cui sono presentati i personaggi di questa vicenda e si scopre lentamente che assistiamo a una crisi familiare i cui protagonisti sono una donna, che lavora nel mondo della cultura, e i suoi due figli: un adolescente, Astrid, scappato di casa e poi ritornato, e sua sorella minore.
Il soggetto di I Was At Home, But parla della crisi esistenziale che la donna affronta dopo la scomparsa del marito, del rapporto tempestoso con i propri figli; del ragazzo che deve elaborare la mancanza della figura paterna e, allo stesso tempo, dei figli nei confronti della figura materna, così imprevedibile, in un rapporto di rifiuto-accettazione continua. La scelta stilistica della Schanelec è alquanto confusa e ambigua. Utilizza long take e carrellate a seguire i personaggi nei loro dialoghi in esterno, riprendendo a volte situazioni tra l’ordinario e l’assurdo. A titolo di esempio, la donna acquista una bicicletta usata che poi si rompe: due lunghe scene di dialogo prima per l’acquisto e poi per la restituzione. L’altra, a circa due terzi del prolisso film, un lungo quasi monologo della donna, durante l’incontro con un professore, sul ruolo dell’artista e la sua funzione nell’arte. Ecco, due esempi di rappresentazioni avulse dal contesto, fine a se stesse, punti di vista dell’autrice su argomenti privati e teorici. Ma che non sono collegati tra loro e il resto del film.
I was at home but cita Woody Allen
I Was At Home, But è un guazzabuglio intellettualistico che inizia come un film di Robert Bresson, continua come una pellicola godardiana, cita le nevrosi del Woody Allen dei suoi film “seri”, inserisce inquadrature che richiamano da un lato l’arte della Neoavanguardia, dall’altro i Preraffelliti (come nel finale che vorrebbe essere conciliatorio), con l’aggravante di intervallare le varie sequenze con la rappresentazione teatrale di Amleto di William Shakespeare da parte della compagni di classe di Astrid. I continui cambiamenti stilistici, gli innesti di differenti elementi metanarrativi e simbolici non si amalgamano mai, creando un’opera che non riesce a elevarsi dai suoi piccoli gorghi visivi scollegati uno dall’altro. Lo sguardo dell’asino in macchina alla fine del film verso il pubblico non esprime alcuna empatia, non accede a nessun elemento simbolico religioso-panteistico, ma resta per quello che è: un’inquadratura di un asino. I Was At Home, But risulta essere un esercizio velleitario, una sorta di tavolozza delle conoscenze e dell’idea di arte della regista che cade sul suo farsi cinema, restando impantanato in una mancanza di drammaturgia e incapacità di organizzare la materia trattata in discorso filmico.
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