Invictus – L’invincibile è un film del 2009, prodotto negli Stati Uniti, diretto da Clint Eastwood. Il film è un adattamento cinematografico del romanzo Ama il tuo nemico (Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation) di John Carlin, a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti. La trama si sviluppa attorno agli eventi che ebbero luogo in occasione della Coppa del Mondo di rugby del 1995, tenutasi in Sudafrica poco tempo dopo l’insediamento di Nelson Mandela come presidente della nazione. Lo stesso Nelson Mandela, interpretato da Morgan Freeman, è fra i protagonisti del film, insieme al capitano degli Springboks François Pienaar, interpretato da Matt Damon. È anche l’ultimo film dove Morgan Freeman viene doppiato, nella versione italiana, da Renato Mori, scomparso nell’agosto 2014.
Sinossi Nelson Mandela guida il Sudafrica, finalmente uscito dal buio periodo dell’apartheid. Un evento sportivo eccezionale potrebbe portare il Paese a una svolta per lasciarsi alle spalle le sofferenze della segregazione razziale e riunire per la prima volta bianchi e neri: la Coppa del mondo di rugby. Le speranza di vittoria e di riscatto sono nelle mani del capitano della nazionale, François Pienaar.
La recensione di Taxi Drivers (Giacomo Ioannisci)
Altro sport, altro capolavoro. Il cinema di Clint Eastwood pare non avere limiti in quanto a profondità emotiva. Bastano pochi elementi e il gioco è fatto. Anche perché il genere è solo un pretesto. La poesia, tra SergioLeone e John Ford, per citarne qualcuno, fa il resto. Con Invictus, però, Eastwood torna nel già esplorato mondo sportivo (dopo Million dollar baby sulla boxe realizzato nel 2004), a cui aggiunge un altro filone da sempre molto amato: il biopic (Birddel 1988 n’è un esempio).
La storia è ambientata in Sud Africa. Subito dopo essere stato eletto presidente, Nelson Mandela (Morgan Freeman), deve trovare un modo per riunire la popolazione del suo paese letteralmente spaccata in due, bianchi e neri. Nonostante l’apartheid sia stato ufficialmente sconfitto, si manifestavano ancora molte forme di razzismo. Mandela, quindi, per riunire il paese approfitta della Coppa del Mondo di rugby del 1995. Infatti, proprio quell’anno agli Springboks (il soprannome della nazionale sudafricana di rugby) è permesso di partecipare a eventi internazionali. Mandela voleva che il Sud Africa vincesse il mondiale, sperando che questo evento di grande importanza potesse in qualche modo riunire il paese. Purtroppo gli Springboks erano reduci da numerose sconfitte. Secondo alcuni addetti ai lavori, non avrebbero potuto superare neppure i quarti di finale. Mandela però non si arrese e convocò il biondissimo capitano della squadra Francois Pienaar (Matt Damon) per informarlo di cosa aveva bisogno l’intero Sud Africa. I due unirono le forze per la pacificazione del loro Paese. Per l’occasione vennero addirittura coniati slogan quali “The rainbow nation” e “Una squadra, un Paese”. Il resto è già storia. «ll rugby non è un fattore politico… è umano!», parola di Morgan Freeman.
Invictus(in latino invitto, mai sconfitto) è il secondo film dedicato a Nelson Mandela dopo Il colore della libertà (2007) di Bille August, che però ne racconta il rapporto con James Gregory, il secondino che lo seguì durante il periodo di prigionia (autore anche del libro da cui è tratto il film).Invictus, invece, è legato a un preciso momento storico, la Coppa del Mondo di rugby del 1995 in Sud Africa, paese la cui partecipazione a partire dagli anni Ottanta era stata proibita a causa dell’apartheid.
Nello specifico si tratta di un adattamento, fortemente voluto da Morgan Freeman, del romanzo di John CarlinPlaying the enemy: Nelson Mandela and the game that made a nation (in Italia pubblicato con il titolo “Ama il tuo nemico”), anche se il titolo Invictus, “L’invincibile”, (inizialmente il film doveva intitolarsi The human factor) fa riferimento ad un poemetto di William Ernest Henley del 1875 molto amato da Mandela nel periodo di detenzione. Non è un caso, infatti, che sono i versi del poeta ad accompagnare la grande impresa di unità di un popolo diviso. Unità che si compie su un campo di rugby, perché anche lo sport ha la forza di cambiare il mondo. «Non importa quando sia stretta la porta, quanto piena di castighi la pergamena. Io sono il padrone del mio destino, io sono il capitano della mia anima».
J. Edgar è un film del 2011 diretto da Clint Eastwood, da una sceneggiatura di Dustin Lance Black. Il film racconta la carriera del direttore dell’FBI J. Edgar Hoover a partire dagli attentati anarchici nel 1919 fino al giorno della sua morte nel 1972, affronta anche la vita privata e la presunta omosessualità di Hoover. Il film è interpretato da Leonardo DiCaprio, Armie Hammer, Naomi Watts, Ed Westwick, Jeffrey Donovan e Judi Dench.
Sinossi La vita di J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI per oltre mezzo secolo, è caratterizzata da un lato dal suo operato pubblico e dall’altro dalla complessa e chiacchierata vita privata. Circondato sempre dalla fedele segretaria Helen e consigliato dalla rigida madre Anne Marie, Hoover contribuisce a creare il mito dell’organizzazione investigativa federale americana, occupandosi in prima persona di riorganizzarne struttura e metodi applicativi e di condurre la lotta contro il mondo dei gangster. Mentre il suo potere cresce a dismisura, fino a intimorire anche i presidenti americani, molte voci cominciano a insinuare dubbi sul vero legame che intercorre con il braccio destro Tolson, sospettato di essere il suo amante.
La recensione di Taxi Drivers (Martina Calcabrini)
Quando si sceglie di puntare i riflettori su John Edgar Hoover, una delle più controverse figure della storia della politica americana del ventesimo secolo, ci si espone a molteplici rischi. Ma se a farlo è un regista come Clint Eastwood, un autore pieno di talento e di spirito critico, capace di non scendere a compromessi e di rimanere lontano quanto basta per non giudicare né l’uomo né il mito, possiamo stare tranquilli. J. Edgar, infatti, è una pellicola che, sotto le vesti del biopic, cerca di raccontare la complessa figura dell’uomo che fondò l’F.B.I., svelandone le sfaccettature senza giustificarle.
John Edgar Hoover era un uomo timido e impacciato che viveva una vita austera e rigorosa governato dalla figura ingombrante di una madre sempre troppo presente. Abituato a controllare ogni aspetto della sua esistenza, Hoover propose di adottare un metodo molto simile per schedare tutti quei delinquenti che, senza prove troppo evidenti, erano abituati a farla franca. E così, senza accorgersene, il giovane (e balbuziente) Edgar divenne presto il capo dell’F.B.I., la più importante istituzione investigativa di tutta l’America, rimanendo in carica per quasi mezzo secolo, e sopravvivendo a ben otto Presidenti (da Coleridge a Nixon). Durante questi lunghi anni, Edgar costruì diligentemente la sua figura pubblica di uomo serio e autorevole partecipando (soltanto) a tutti quegli eventi sociali che avrebbero accresciuto il proprio potere. Ebbe molte più difficoltà, invece, a costruire la sua immagine privata perché, non essendosi mai sposato né fidanzato, venne accusato di essere l’amante di Clyde Tolson, il suo socio e amico fidato. Nessuno seppe mai la verità, però, perché Edgar sapeva benissimo che sua madre avrebbe preferito un figlio morto piuttosto che omosessuale. Ecco dunque il motivo di tanto rigore, di tanta disciplina, di tanto distacco dalla vita, osservata dai vetri di una finestra, sorvegliata attraverso microspie, abbandonata a causa di principi e doveri troppo rigidi.
Ed è proprio su questo confine che Eastwood posiziona la sua macchina da presa: né troppo vicina né troppo lontana da quello che John Edgar Hoover fu davvero. Fu un uomo forte, fu un capo severo, fu un compagno distante ma, certamente, non fu mai un eroe. I fascicoli di prove sulle personalità più in vista dell’epoca, che racchiudeva in schedari nascosti nel suo ufficio, vennero spesso usati per scopi personali, perché, si sa, il potere corrompe persino le menti degli uomini più puri (negli intenti). Il regista decide di non raccontare la storia di Hoover in ordine cronologico, preferendo procedere per flashbacks ricorrenti, mixando, così, presente e passato, gioventù e vecchiaia, voglia di vivere e paura di morire. Ma i ricordi, si sa, col tempo si opacizzano, si affievoliscono, e infine svaniscono. Ed è per questo che un invecchiato e arrabbiato Leonardo Di Caprio, raccontando la sua biografia, tende a scambiare (?) verità e bugie, realtà e illusioni, natura e sentimenti.
Eastwood è davvero eccezionale nel suo intento di rappresentare un uomo difficile, complessato, solo ma, contemporaneamente, talmente intelligente, e orgoglioso di esserlo, da risultare sempre una spanna sopra chiunque altro. Ecco spiegato, dunque, il motivo delle costanti inquadrature dal basso verso l’alto e che non possono non riportare alla mente quel William Randolph Hearst, protagonista di quel capolavoro wellesiano che fu Quarto Potere. Senza criticare né giudicare, dunque, Clint Eastwood ci invita ad ascoltare la storia di un uomo che, prossimo alla morte, svela la sua anima. O almeno ci prova.