Selfie di Agostino Ferrente è un documentario sulla Napoli liminare con al centro il quartiere Traiano, periferia degradata, dove i giovani non hanno alcuna prospettiva se non quella dello spaccio. La morte di un ragazzo, Davide Bifolco, ucciso durante un inseguimento notturno dai carabinieri, dopo un mancato controllo, diventa il pretesto per raccontare la storia di due adolescenti onesti di sedici anni del quartiere, Alessandro e Pietro, amici di Davide.
Ferrente mette in mano ai due uno smartphone e li utilizza come operatori di se stessi in una soggettiva continua. Il primo lavora come barman, mentre il secondo è un barbiere in cerca di occupazione. Tra un pranzo, una passeggiata, monologhi di vari amici, conoscenti e parenti che incrociano, si riprendono in un autopedinamento dove la città è intravista alle loro spalle, dietro le loro facce. Non si capisce cosa voglia narrare effettivamente Ferrente: la storia di Bifolco è avulsa dalla narrazione e si riduce a un puro elemento di parentesi cronachistica per rappresentare in contraltare una camorra assente nella sostanza, ma citata attraverso parodie di Gomorra di Matteo Garrone, come le lampade solari dei due giovani o i continui gesti delle dita a mimare una pistola con la mano di traverso.
L’autopedinamento rimane sulla superficie dei caratteri e dell’ambiente, così i due giovani protagonisti non sono né testimoni di una storia da raccontare, né soggetti attivi di una messa in scena. La narrazione implode nell’episodica del quotidiano in modo alquanto puerile. Anche l’ambiente non è esplorato, né sono mostrate le dinamiche sociali o economiche, ma appare alle spalle dei personaggi una sequenza di bozzetti poveri e confusi. Il mondo dove vivono Alessandro e Pietro è accennato, mai approfondito, ridotto a elementi didascalici e luoghi comuni. L’assemblaggio del girato è confusionario, senza un’idea drammaturgica del regista e definirlo montaggio diventa velleitario. Selfie è un prodotto che rasenta il dilettantismo amatoriale, un film che vuole essere di denuncia, ma manca clamorosamente l’obiettivo per la pochezza dell’occhio che riprende, in scene ripetitive e amorfe. Presentato nella sezione Panorama della Berlinale si fatica a credere come un lavoro così povero sia stato oggetto di interesse da parte dei selezionatori del festival.