Basato sul romanzo All the truth is out di Matt Bai, The Front Runner – Il vizio del potere narra le vicende del senatore Gary Hart (Hugh Jackman), colpito da uno scandalo di incalcolabile portata, durante la sua corsa nelle elezioni presidenziali per il Partito Democratico. A poca distanza dal suo precedente lavoro (Tully), Jason Reitman torna dietro la macchina da presa e a una tematica che lo riporta in qualche modo alle origini (Tra le nuvole), laddove indaga cosa si cela dietro la facciata pubblica di un personaggio di rilievo, i meccanismi che umanamente scattano nel momento in cui si viene attaccati, su scala globale, in merito ad argomenti che poco o nulla hanno a che fare con il proprio lavoro, inevitabilmente ed irrimediabilmente messo in discussione.
The Front Runner ha le sembianze e il sapore dei vecchi film d’inchiesta, che si sviluppano in un preciso arco temporale e attraverso varie tappe geografiche, così da dare un’idea quanto più esatta possibile della vicenda che si sta raccontando. Ambientata tra il 1984 ed il 1988, la storia è un ritratto realistico e poco romanzato della società di quegli anni, in particolare di tutta quella fetta di popolazione che si muoveva nella politica, nel giornalismo, negli scandali. Ognuno di questi elementi viene posto sotto la luce implacabile dei riflettori, mostrandone falle e motivazioni, senza esprimere alcun tipo di giudizio ma sollevando, piuttosto, una serie di spunti di riflessione di grande interesse e curiosità. Si viene pian piano portati a contatto con un mondo pieno di stratificazioni, di sotterfugi, ma anche di umanità, di sensibilità, che deve spesso cedere il passo al fine di proteggere se stessi e coloro che si amano.
La privacy diventa quindi il fulcro dell’intero discorso, in maniera graduale e sempre più pregnante: un diritto senza il quale è impossibile pensare di vivere, soprattutto quando si è un personaggio famoso; ma quali sono i limiti da imporre affinché essa possa essere rispettata, protetta e non contaminata? Da qui si ramificano tutti gli altri argomenti, come la difficoltà di giudizio da parte di noi tutti nei confronti di un uomo (o una donna) che dovrebbe rappresentarci e migliorare le nostre vite con interventi mirati, di cui viene però messa in discussione la moralità, oltre che la credibilità; ma anche l’incompetenza, la poca scrupolosità e la presunzione di molti addetti ai lavori, che rischiano di rovinare delle carriere, insieme a delle vite, senza rendersene conto o addirittura non curandosene.
Al fianco del discorso pubblico si trova, come è chiaro, quello privato, incarnato soprattutto da alcune figure femminili legate al protagonista – la moglie, la figlia, l’amante – costrette a fare i conti con qualcosa che non hanno cercato ma che inevitabilmente cambierà per sempre le loro esistenze. Reitman riesce a curare alla perfezione ogni aspetto della pellicola, trovando escamotage intelligenti e mai troppo banali per raccontare le diverse sfumature che caratterizzano i personaggi; ognuno si ritaglia il suo spazio e non viene schiacciato dal peso degli altri, anzi si rafforzano a vicenda nei dialoghi, tratteggiando così una comunità al completo. Jackman è mostruoso nella sua performance, bravissimo a non superare mai quel confine invisibile oltre il quale si diventa macchiette e a dare una concretezza emozionante al suo Gary Hart.