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Per essere tale un autore deve assumersi i propri rischi: intervista a Laszlo Nemes, regista di Tramonto
Con Il figlio di Saul ha vinto il premio speciale della giuria al Festival di Cannes e, soprattutto, l’Oscar per il miglior film straniero. Punta di diamante di una cinematografia, quella ungherese, tra le più vitali del panorama europeo, Laszlo Nemes torna sugli schermi con un’opera seconda altrettanto forte e coraggiosa, capace di interrogare la realtà con gli strumenti di un cinema che non ha paura di assumersi rischi e responsabilità. Al regista di Tramonto abbiamo posto alcune domande a proposito del suo film
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6 anni agoon
In Tramonto la storia è raccontata attraverso gli occhi di Irisz, fatto salvo l’inizio e la fine del film in cui è il tuo sguardo a introdurre e poi concludere la narrazione. Volevo chiederti se tale affermazione trova corrispondenza nelle tue intenzioni e, ancora, se la prima scena possa considerarsi un atto d’amore nei confronti del tuo personaggio.
A dire il vero credo che la tua domanda sia più interessante della mia risposta. Penso di avere un rapporto speciale sia con i personaggi dei miei film che con gli spettatori. Ho cercato di creare un legame speciale con il pubblico, specialmente in questo film. Voglio che gli spettatori prendano parte al viaggio e che non si crei un rapporto a senso unico. Ci deve essere qualcosa di più di questo; non a caso le sequenze di cui parli sono scene di transizione nelle quali invito gli spettatori ad essere parte di un viaggio molto personale e soggettivo. La presenza del fratello della protagonista e le risposte da lei cercate durante il film penso siano un modo per stabilire un collegamento speciale con gli spettatori. A loro voglio infatti affidare qualcosa che di solito non viene fatto, vale a dire la possibilità di prendere parte al film.
Pur dedicata alla protagonista, l’apertura del film è reticente nel dare informazioni su di lei. Nella considerazione che ciò si verifica anche in altri passaggi della narrazione, volevo chiederti se si tratta di una strategia per mettere lo spettatore nelle stesse condizione di Irisz: come lei non riesce a cogliere pienamente la realtà così succede a noi rispetto alle intenzioni e ai comportamenti della protagonista.
Esatto, è il nostro rapporto come spettatori con il personaggio principale che viene messo in discussione, come pure la percezione della realtà da parte della protagonista. Interrogare entrambi gli aspetti equivale a dare seguito a quelle che sono sempre di più le premesse del cinema contemporaneo. Detto che sono molto focalizzato ad approfondire queste modalità, parte della strategia consiste nel portare il pubblico dentro il viaggio, facendogli condividere lo spazio e il tempo della protagonista. Così facendo, lo spettatore è costretto a prendere in considerazione non solo il fatto che esiste una percezione della realtà ma anche a interrogarsi sulla propria.
Tu sei la punta di diamante di un cinema come quello ungherese che valorizza l’umano attraverso il primato della forma. La domanda è, dunque, cosa ha “informato” il tuo modo di girare, chi lo ispira e quali sono i tuoi punti di riferimento?
Credo di essere davvero attratto dal voler immergere lo spettatore nel “qui e ora” del protagonista e per fare questo mi affido allo spazio. Sono davvero interessato in come lo spazio e il tempo possano essere messi in discussione, non essendo – come sai – solo oggetti inanimati. Credo che in qualità di esseri umani la nostra percezione del mondo sia molto più limitata di quanto vogliamo ammettere e di ciò che ci viene comunicato dalla società. Attraverso internet, TV e cinema, abbiamo un punto di vista sempre più “divino” del mondo. Al contrario, penso che la nostra visione di tutto questo sia molto ridotta. Nel film cerco di comunicare la sensazione di questa limitazione. Non sono attratto dall’arte che pretende di dare allo spettatore l’infinito o l’onnisciente, ma dall’esatto opposto. La mia fonte di ispirazione è il cinema, la fotografia e la pittura. Sono influenzato da molti film e sono aperto a ogni cosa; non affermo che non c’era nulla prima di me, non solo nel cinema ungherese ma anche in altri cinema. Nel vedere un film di Antonioni, per esempio, rimanevo affascinato dal suo lavoro e lo stesso effetto me lo davano quelli di Robert Bresson, tanto per fare un esempio tratto dalla cinematografia francese. In generale, credo che ci si dovrebbe fidare di più del pubblico, ed è questo il motivo per cui sto cercando di spingere le persone al di là della loro zona di comfort, per farli riflettere e affrontare l’inaspettato e lo sconosciuto. Il cinema oggi non dovrebbe essere interessato o legato a soggetti, ma difendersi come arte a sé stante. In questo modo ci si può interrogare come esseri umani sul senso dell’esistenza.
Come Il figlio di Saul, anche Tramonto è dominato da una visione di un male metafisico che possiede gli uomini gettandoli nel caos di una realtà indecifrabile. Nonostante ciò, i tuoi personaggi non smettono di cercare il senso della vita, per cui la mia domanda è: esiste davvero un senso o si tratta di una semplice illusione?
Questa è un pensiero molto intelligente! Sono molto interessato alla natura del male, perché in esso c’è qualcosa che ci attrae in maniera istintiva. Cerchiamo di capirne le ragioni con ricerche accademiche, storiche e sociologiche. Spieghiamo ogni cosa in maniera razionale e la ragione ha preso il sopravvento sulla nostra esperienza, dimenticando come possa essere forte l’irrazionale negli sviluppi delle vicende umane. Il film si domanda come sia possibile che con così tanta creatività e ingegno ci ritroviamo poi nei campi di battaglia e nella distruzione della prima guerra mondiale e successivamente della seconda. Non si può razionalizzare ogni cosa, ci sono eventi su cui dobbiamo interrogarci, ma la cui ragioni sfuggono a qualsiasi classificazione, come quella del perché il mondo sia arrivato alla Grande guerra partendo da premesse luminose e così piene di promesse. Avendo studiato Storia, so che le cose sfuggono a ogni tentativo di codificazione. Di certo c’è il desiderio metafisico all’autodistruzione dell’essere umano.
In Tramonto la decadenza dell’impero austro-ungarico dei primi del novecento – scosso da attentati terroristici – rimanda inevitabilmente ai nostri giorni. Nel film fai dire al fratello di Irisz che la minaccia non è causata da un agente esterno ma nasce e si sviluppa dentro di noi. Questa teoria sconfessa il pensiero dominante, che guarda agli immigrati come fonte primaria di destabilizzazione del nostro continente. Cosa ne pensi?
L’immigrazione, come i grandi flussi migratori e la caduta dei grandi imperi, ha da sempre definito l’esistenza umana. Credo, però, che l’Impero romano non sia caduto per la pressione esterna dei barbari ma a causa della mancanza di energia interna, come pure di promesse e ideali adeguati ad alimentarla. Ecco, io credo che tutto questo si stia ripetendo in questo difficile periodo storico, tanto in Europa che nell’emisfero occidentale. A livello di civiltà le promesse e le energie sono esaurite, anche se non ne siamo ancora pienamente consapevoli in quanto troppo sicuri del nostro incredibile potere.
Tramonto è costruito su diversi tipi di dialettiche: quella tra notte e giorno, buio e luce, spazio fisico e interiore. Potresti dirmi come hai lavorato su questi elementi?
In questa opera volevo costruire l’architettura del film attraverso la dualità. Abbiamo la storia di questa donna impegnata nella ricerca del fratello. Il ragazzo misterioso è la risposta a tutte le sue domande. L’intera storia è costruita attorno alla dicotomia tra giorno e notte; il bel mondo e i campi di battaglia, con le minacce e il pericolo che gli appartengono sono intrecciati tra loro e non si possono separare. Più si procede e più si deve affrontare il fatto che non solo il giorno e la notte non possono essere divisi, ma che anche il fratello e la sorella sono inseparabili, come inseparabili sono l’uomo e la donna e la loro essenza. Parliamo di fatti e argomenti, che la protagonista non deve necessariamente capire, che di certo costituiscono una delle domande del film. Mi interessava mostrare come vengono visti e il modo in cui si intrecciano.
Nonostante Tramonto sia un film in costume, rinunci a mostrare la magnificenza della ricostruzione d’epoca. Pur presente, tu, in qualche modo, la veli attraverso fuori fuoco e restringimenti di campo, facendo della tua opera un film quasi sperimentale. Mi piacerebbe sapere il pensiero che ha improntato la messinscena del film.
In merito alla bellezza presente nel film e al fatto che questa non possa svelarsi completamente si nasconde una delle strategie del film. Tramonto ci fa vedere un mondo pieno di bellezza e di promesse che però non sbocciano nella loro completezza. Lo so che tutto questo è frustrante, ma rappresenta molto bene la nostra civiltà, la ricerca di raffinatezza e l’orgoglio presenti in essa. C’è così tanto sotto tutto questo e io sono interessato a scoprirlo.
D’altro canto, credo che chi fa cinema debba assumersi dei rischi, altrimenti non può considerarsi realmente un regista. Io non ritengo che il mio cinema contenga una forza straordinaria, ma a mio parere i registi dovrebbero interrogarsi di più sulla grammatica e sull’espressione utilizzate nella costruzione di un film. Questo accade sempre di meno, a causa della televisione e dell’estetica semplificata di cui essa si fa promotrice, così come per l’abitudine di ricercare e vedere film su internet. La televisione ha preso in consegna il modo in cui noi guardiamo un film. Penso che gli spettatori degli anni sessanta siano stati molto più aperti alla sperimentazione cinematografica. In questo modo tutti i grandi maestri di quel periodo sono stati stimolati a sperimentare molto di più di quanto succede oggi, hanno rischiato molto e per questo sono diventati dei grandi autori. I registi non devono solo prendere dei soggetti per i loro film ma devono anche interrogarsi sul modo con cui metterli in scena, utilizzando tutte le possibilità offerte dal mezzo. Si tratta, però, di un sentimento che viene dal cuore e in questo non si può fingere.
Ho scritto che Tramonto è un film dostoevskijano. In particolare, la sua visione apocalittica, l’estremismo dei caratteri, l’orizzonte morale delle azioni umane e, direi, anche il contesto sociale e politico richiamano uno dei capolavori dello scrittore russo, I Demoni. Pensi che sia un accostamento plausibile?
In un certo senso, si. La cosa che mi diverte è che ho fatto un corto nel 2010, il mio ultimo corto, e l’ho rivisto dopo otto anni, poco prima di parlare con te. Esso è incentrato su uno dei capitoli de I Demoni di Dostoevskij. In questo libro c’è un capitolo nel quale Dostoevskij distrugge una ragazza, facendo di lei una figura quasi dannata. Ecco, io sono rimasto affascinato da tutto questo. Dal fatto che il male non può essere ridotto a qualche mero accadimento e che ognuno di noi, nonostante voglia sfuggirgli, propende verso di esso. Credo che Dostoevskij e Kafka siano molto presenti in questo film, in maniera da renderne il DNA marcatamente est europeo. In Tramonto c’è una sistematica mancanza di risposte e continui ostacoli si antepongono alla ricerca di verità da parte della protagonista. Tutto questo è molto importante e Dostoevskij è stato sicuramente fondamentale nello sviluppo del film.
Per la traduzione dall’inglese si ringrazia Cristina Vardanega