Se non fosse per l’ottima recitazione degli attori, la simpatia dei personaggi, la vivacità (e la sincerità) della narrazione, Il professore cambia scuola potrebbe sembrarci l’ennesimo film sul tema affrontato molto spesso oramai a livello internazionale. Protagonista: un insegnante inadeguato che ricerca affannosamente l’autorevolezza e non la raggiunge per prove ed errori, ma solo quando diventa consapevole del fondamentale investimento sulla relazione educativa. Durata: un intero anno scolastico, dall’inizio alla festa finale in cui tutte le tensioni, finalmente appianate, permettono la conciliazione dell’happy end. Spazi: aule incasinate con studenti recalcitranti, insieme a quella dei professori come luogo di sfogo, condivisione e contenimento dei loro problemi. Momento di svolta del racconto: quello in cui l’insegnante passa dalla ripetitività del suo metodo a sperimentarne uno del tutto inedito, basato sul rapporto di fiducia negli allievi, o nel singolo che più di tutti l’ha fatto dannare.
Il regista francese Olivier Ayache-Vidal non si è sottratto a questi cliché. Tuttavia, è riuscito a costruire un racconto che coinvolge con il sapore della realtà, studiando gli ambienti scolastici per due anni, frequentandone le aule, i consigli di classe, gli incontri pedagogici e utilizzando sul set gli studenti veri. La sua storia richiama subito alla mente il film di Laurent Cantet, Entre les murs, dopo dieci anni in cui, ahinoi, nulla sembra cambiato nel mondo della scuola.
Cantet affermava che nessun attore professionista sarebbe stato credibile nel ruolo dell’insegnante e lo aveva affidato a François Bégaudeau, autore dell’omonimo libro e docente nella realtà. Qui, invece, Denis Podalydès (della Comédie Francaise) è perfetto nella parte di Francois Foucault, professore del prestigioso liceo del centro, L’Henri IV, che si trova, suo malgrado, a insegnare al Barbara de Stains, estrema banlieu parigina, con tutto quello che ne consegue. Vorrebbe fare assegnamento sulla sua lunga esperienza e finge il successo con la giovane collega Chloé (Pauline Huruguen), mentre i ragazzi lo prendono in giro nelle maniere più fantasiose. La classe è multietnica come quella di Cantet, con una prevalenza di neri, ma al suo interno non ci sono gli stessi conflitti, unita com’è contro l’autorità, dietro la quale il professore si ostina a nascondersi. Peggio ancora quando di punto in bianco si finge democratico, perché agli studenti non la si fa, capaci come sono di smascherare il nuovo atteggiamento e di vivere la sua incoerenza come prova di debolezza.
Democratico deve diventarlo davvero, l’intellettuale Francois Foucault, e succederà soltanto quando comincerà a provare empatia per questi ragazzi così indisciplinati e così bisognosi, facendo sua la lezione di Winnicot, che sosteneva come sia “un piacere nascondersi ma un disastro non essere scoperti”. Quando capirà che, tra tutti, quello che gioca meglio a nascondino è il suo allievo più tremendo, Seydou. Noi siamo lì ad aspettare che questo avvenga, quasi a spiare gli elementi che ci suggeriscono il cambiamento. Eppure ci sorprende, perché è come se la sceneggiatura, dello stesso regista, non li abbia volutamente previsti, seguendo più la coscienza del protagonista che i semplici fatti. A un certo punto, dopo tutte le battute provocatorie e stanche a cui la coppia professore-studente ci ha abituati, ci troviamo immersi nella sintonia della relazione, solo seguendo lo sguardo di Denis Podalydès che da perso, confuso e avvilito si fa sempre più indulgente; e il suo impegno nei confronti del terribile, tenero, Seydou, nella seconda parte del film, ci appare naturalissimo.
Un film così ben scritto e interpretato non meritava la banalizzazione del titolo italiano. Dal francese Les grands esprits, all’internazionale The teacher, già utilizzato per il bellissimo film slovacco di Jan Hrebejk (con la figura della tremenda compagna insegnante che ricattava studenti e genitori) al nostro Il professore cambia scuola. E se pure da quel cambiamento di luogo nasce tutta la vicenda, veramente, non si può semplificare fino a questo punto.
Anche perché se è già colpevole creare mediocri aspettative sul tema della scuola (e il film non lo fa) lo è ancora di più, se consideriamo il contesto sociale di cui ci parla Ayache-Vidal, che è quello della privazione certa di ogni futuro, quando si lascia la scuola, perché Seydou e molti come lui hanno come un’unica alternativa la strada. I temi delle disparità sociali e dell’abbandono scolastico fanno di questo film un lavoro impegnato, nonostante i toni leggeri, e la delicatezza di un’altra commedia francese ben riuscita.