Se la notte porta consiglio, figuriamoci quattro anni: True Detective era stata salutata come una delle proposte seriali più innovativi, intense e qualitativamente elevate di sempre, con quel suo viaggio dallo sguardo noir e allucinato tra un disperato nichilismo e le paludi fangose dell’animo umano. Quanta delusione, poi, quando la seconda cercò stancamente di ripetere gli stilemi della prima senza però riuscirne minimamente ad eguagliarne le altezze emotive. Ecco che allora Pizzolato ha ben pensato di prendere una lunga pausa e riordinare le idee, dando vita a una terza stagione che riprende il meglio della sua creazione in un mix incredibilmente appassionante e profondo. E non crediate a chi vi dice che la prima era comunque meglio: qua siamo dalle parti del capolavoro.
Si, c’è Mahershala Ali uno e trino che nella notte degli Oscar 2019 incrocerà le dita per prendere la statuetta; ma non solo. True Detective fonda la sua storia e la sua essenza su uno sfasamento: temporale, prima di tutto, perché narrativamente il racconto si snoda lungo tre binari che corrono paralleli ma lontani, coprendo trentacinque anni di indagini sulla misteriosa sparizione di due bambini. E nonostante questa corsa ad ostacoli (non è facile reggere bene e senza confusioni tre racconti cronologicamente distinti), storytelling, regia e stile sembrano tutt’uno: ricollegandosi, oltretutto, a quella prima storia dove il protagonista McConaughey diceva che “il tempo è un cerchio piatto” inducendo inquietanti e suggestive riflessioni sul tema. Certo, ormai il discorso è ampiamente dibattuto e sviscerato anche sul grande schermo (vedi Nolan), ma è indubbio che la lunga serialità del piccolo schermo si presti meglio all’argomento.
True Detective 3 bilancia perfettamente l’attenzione tra il protagonista – che ovviamente ci si aspetta poco attendibile: il racconto in prima persona è sempre sdrucciolevole, nei gialli – e tutto il mondo di brillocca umanità che gli gira intorno, fatto di tristezze infinite e infinite malinconie familiari. Quella di Ali è una figura al contempo tragica e misteriosa, affascinante nelle sue diversità tra una sua declinazione temporale e un’altra: ma è soprattutto l’abilità della scrittura che rende la storia del personaggio così fumosa e insieme così densa. Perché Wayne Hans (il detective che indaga sui fratelli, che torna ad esserne coinvolto per risvolti sul caso dieci anni dopo, e che ben trentacinque anni più tardi viene intervistato al riguardo da una giornalista tv) è un eroe-antieroe che porta con sé buio e luce: capiamo subito che qualcosa è andato storto nel corso delle sue investigazioni e nel terzo, bellissimo episodio (The Big Never) diventa chiaro che quel qualcosa l’ha provocata lui. True Detective assume allora le dimensioni gigantesche e potenti di uno scandaglio sul potere del senso di colpa, sulla tragica consapevolezza della propria fallibilità e sull’impotenza di fronte al tempo che passa – il tutto immerso nelle atmosfere rarefatte della polverosa America di provincia capace ancora di suggestionare e affascinare, mentre la serie HBO segna un ritmo lento ma inesorabile, che si avvolge intorno al pericoloso, scivoloso concetto di tempo (Siamo del tempo e nel tempo, dice Wayne).
È in questo modo che la colpa diventa una gabbia infestata dai demoni personali: e la scissione, la scansione del tempo è un pretesto, un artificio tecnico (come quella operata nel montaggio tecnico, come quello che passa tra una stagione e un’altra, come quello che la giornalista tv utilizza per intervistare il protagonista) che usiamo per illuderci. Tanto alla fine non siamo che intrappolati tutti in una sorta di eterno, doloroso ritorno.
Gian Lorenzo Franzì