Tra i film in concorso al 30° Trieste Film Festival quello dell’albanese Bujar Alimani ci ha particolarmente colpito ed emozionato per l’accuratezza drammaturgica, per la capacità di relazionarsi al passato della piccola nazione balcanica alternando abilmente farsa e tragedia. Del resto il passato comunista dell’Albania (con le sue tragiche conseguenze sulla popolazione) tende a fare capolino spesso, in un cinema non molto sviluppato produttivamente ma decisamente curato a livello formale, di scrittura e interpretativo, almeno nei suoi esiti più rilevanti: basti pensare a Slogans (2001) di Gjegj Xhuvani, davvero ottimo nell’affrescare il significato profondo di un’epoca. E anche quando i riflettori sono stati puntati su anni a noi più vicini, vedi quel Tirana anno zero diretto sempre nel 2001 da Fatmir Koçi, le scorie di una simile esperienza politica avevano ancora un peso determinante.
C’è pertanto da ringraziare il regista di Delegacioni (La delegazione) per aver aggiunto un altro tassello importante. Nel film la cornice del racconto è rappresentata dal periodo di poco antecedente al crollo del regime comunista. Come lo stesso Alimani ha voluto ricordare, durante l’incontro col pubblico, era prassi comune in quella fase di transizione tentare di accreditarsi presso i paesi occidentali, cui si chiedevano disperatamente interventi economici e altri sostegni tesi a puntellare un sistema politico-sociale ormai moribondo, mostrando qualche apertura nei confronti dei prigionieri politici. Ma l’ipocrisia era tale che molto spesso si simulava d’averli lasciati finalmente liberi, li si faceva incontrare con gli emissari di governi stranieri e di associazioni umanitarie, per ricondurli subito dopo nelle durissime carceri e nei campi di lavoro sparsi lungo il paese.
Da questa mesta aneddotica esce fuori la paradossale parabola di Delegacioni, con il protagonista, un intellettuale che aveva già pagato con diversi anni di prigione il proprio dissenso, costretto a fare tappa verso la capitale per uno di questi incontri costruiti a tavolino, accompagnato peraltro da un vecchio, spietato, dogmatico carceriere, da lui riconosciuto come uno dei torturatori utilizzati dal regime comunista per punizioni esemplari, interrogatori ed esecuzioni. Percependo l’agonia del proprio distorto sistema di valori e non sapendo come porvi rimedio, quell’uomo pare ulteriormente incattivito. Ma l’anziano e disilluso intellettuale non potrà fare a meno di affermare con coraggio il proprio punto di vista, arrivando addirittura a provocarlo apertamente, col rischio di suscitare reazioni assai pericolose per la propria incolumità…
I taglienti dialoghi tra i due non possono fare a meno di ricordare, seppur in tono minore, l’analogo confronto posto in atto all’interno di quel piccolo capolavoro che è L’après-midi d’un tortionnaire. Nel film del rumeno Lucian Pintilie vi era ovviamente la famigerata Securitate al centro del discorso. In Delegacioni, forte comunque di una sceneggiatura ficcante e stratificata, i riferimenti al simile sistema repressivo operante nell’Albania comunista vanno poi ad intrecciarsi con una serie di incontri, nei quali l’apparire di personaggi secondari molto ben delineati aiuta a focalizzare meglio lo stato di decadenza e i nuovi fermenti di un regime, giunto ormai alla fine della sua grigia esistenza. L’ironia beffarda e feroce di Bujar Alimani e dello sceneggiatore Artan Minarolli si concretizza così in qualche quadretto grottesco, destinato a strappare sorrisi amari, come anche in soluzioni narrative e riflessioni di gran lunga più cupe, da cui quel finale che lascia inevitabilmente scosso lo spettatore.