Reviews

The Karate Kid – La leggenda continua

“Il grande merito di Harold Zwart è quello di aver ‘partorito’ qualcosa che assomigliasse più ad un vero e proprio martial arts action, abbandonando la commistione tra avventura e commedia”

Published

on

C’è un evidente e clamoroso errore di forma già nel titolo di questo quinto capitolo della saga di The Karate Kid, che trovò la sua genesi e ben tre episodi tra il 1984 e il 1989 grazie al terzetto formato dal regista John G. Avildsen e la coppia di attori Ralph Macchio e Noriyuki “Pat” Morita, per poi riemergere dalle ceneri della dimenticanza nel 1994 in The Next Karate Kid. L’errore è legato al fatto che l’eroe di turno non pratica l’arte marziale del karate bensì uno degli stili più letali del kung fu, il wushu. Questo perché la storia ci porta dritti dritti nella patria del kung fu, la Pechino post-Olimpica per seguire le avventure marziali di Dre Parker (interpretato dal sempre più convincente Jaden Smith, figlio di Will), un dodicenne di Detroit costretto a trasferirsi in Cina a causa del lavoro della madre (la bravissima Taraji P. Hanson). In breve tempo Dre inizia a simpatizzare per la sua compagna di classe Mei Yin, ma le differenze culturali rendono questa amicizia difficile. A peggiorare le cose c’è il bullo Cheng, prodigio del kung fu, che si ingelosisce per i sentimenti di Dre nei confronti dell’amica comune. Senza amici, in un paese straniero, il ragazzo non si sente a suo agio se non con Mr. Han (un Jackie Chan meno brillante, ma sempre agile e scattante), il responsabile della manutenzione del suo condominio, che segretamente è anche maestro di kung fu. Man mano che Han insegna al ragazzo che quella non è una disciplina solo di pugni e abilità, ma anche di maturità e calma, Dre capisce che affrontare i bulli sarà l’avventura della sua vita.

Dal plot di The Karate Kid – La leggenda continua ci si rende subito conto di trovarsi al cospetto di un remake di Per vincere domani piuttosto che di un vero e proprio sequel. Avildsen dopo il fallimento dei due capitoli successivi ha abdicato in favore del collega Christopher Cain che, a sua volta, per dare nuova linfa alla saga ha sostituito il personaggio di Daniel con quello della ragazzina interpretato da Hilary Swank. A iniziarla alle arti marziali troviamo ancora il compianto Morita nel ruolo di Miyagi (nel 1984 si guadagnò meritatamente una nomination all’Oscar), ma, nonostante tutto, l’operazione ha finito anch’essa con il naufragare inesorabilmente. A distanza di sedici anni, i creatori hanno dunque capito che l’unico modo per fare resuscitare la saga era quello di rigenerala a partire dal suo DNA. Situazioni e personaggi, seppur riadattati e trasferiti in chiave decisamente più moderna (siamo nel primo decennio del Duemila nell’epoca dell’I-Pod), sono costruiti a immagine e somiglianza del primo storico episodio di una serie, che nel tempo ha conosciuto purtroppo un calo progressivo e inesorabile (stesso infame destino de Il ragazzo dal kimono d’oro). C’era bisogno di un’inversione di marcia ancora più drastica e quindi di una vera e propria rivoluzione, esattamente come avvenuto con Batman o Superman. Più che “continua”, come suggerisce la distribuzione nostrana, bisognerebbe allora parlare di una nuova leggenda, di un nuovo principio.

Preservati praticamente intatti gli ingredienti storici che hanno fatto la fortuna del primo capitolo del 1984, nella pellicola diretta questa volta da Harald Zwart, gli autori rimescolano le carte in tavola trasferendo personaggi e storia dagli Stati Uniti alla Cina (già nel primo sequel del 1986 il buon Daniel affrontava una trasferta asiatica in quel di Okinawa, isola dell’arcipelago nipponico). Il resto, come già accennato, è un’operazione (a nostro avviso abbastanza riuscita) di rigenerazione visiva e drammaturgica della matrice originale (una sorta di romanzo di formazione), sintetizzabile attraverso una riproposizione quasi fedele delle scene chiave del primo capitolo: da Dre e sua madre che lasciano la vecchia casa per trasferirsi in un’altra al pestaggio del protagonista da parte del gruppo di bulli, con tanto di salvataggio di quello che diventerà il suo maestro e mentore, per finire ovviamente con l’epilogo del torneo. Non manca l’addestramento apparentemente bislacco, scandito a suo tempo dallo storico “Metti la cera, togli la cera” sostituito ora da “Metti il giacchetto, togli il giacchetto”. Come non possono mancare le battute ad effetto alla Miyagi pronunciate dal personaggio di Han, meno cervellotiche e più chiare (come ad esempio “Tu ragioni solo con i tuoi occhi, per questo sei facile da ingannare” oppure “Non esistono cattivi allievi, solo cattivi maestri”).

Da parte sua, il regista di origini olandesi Harald Zwart, qui alla sua quarta esperienza nel lungometraggio dopo l’esordio del 2001 con la black-comedy Un corpo da reato, seguito dall’action-comedy Agente Cody Banks e dal sequel de La Pantera Rosa, mette a disposizione del progetto uno stile veloce e accattivante, perfettamente in linea con il tipo di operazione. Uno stile basato sul ritmo serrato e sul buon equilibrio tra momenti di stasi e concitata azione, derivante probabilmente dalla lunga esperienza nel mercato della pubblicità e dei videoclip. Il livello dei combattimenti e il tasso di spettacolarità sono praticamente quadruplicati, paragonabili per quantità a tutto quello che sommato si è potuto vedere nei quattro episodi precedenti. Il grande merito di Zwart e degli sceneggiatori è soprattutto quello di aver ‘partorito’ qualcosa che assomigliasse più da vicino ad un vero e proprio martial arts action, abbandonando di fatto la commistione tra avventura e commedia che, una volta consumato l’effetto, ha finito con il logorare dall’interno la serie. Le sequenze d’azione, in particolar modo le coreografie marziali, funzionano quasi sempre o, quanto meno, risultano credibili e ben concepite. Lo script si appoggia molto spesso proprio sull’azione, senza però tralasciare le parti dialogiche e interpretative, nel quale il cast riesce a mettersi bene in evidenza, anche se la coppia Smith-Chan difficilmente potrà scalzare dall’immaginario collettivo il duo Macchio-Morita. Nota dolente, l’eccessiva durata della pellicola, ben centoquaranta minuti per buona parte dedicati a una serie di scene cartolina, di cui si sarebbe potuto fare tranquillamente fare a meno dal punto di vista del racconto.

Francesco Del Grosso

Commenta
Exit mobile version