Pur essendo datato 2009 ed avendo fatto la sua apparizione al Trieste Film Festival l’anno seguente, Rabbit à la Berlin del polacco Bartek Konopka non poteva certo mancare in questa trentesima edizione di una kermesse cinematografica che, come abbiamo già avuto modo di evidenziare parlando di Meeting Gorbachev, ha nel mirino anche i 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, la cui celebrazione avverrà il 9 novembre prossimo. Un anniversario alquanto significativo. E farvi riferimento riproponendo nella sezione Racconti dal Muro di Berlino un documentario “sui generis” come Rabbit à la Berlin è non soltanto mossa arguta, bensì spunto per riconsiderare tale evento da una prospettiva tanto insolita quanto spiazzante.
Il folgorante lavoro cinematografico di Konopka parte da un dato reale, probabilmente già noto a coloro che della metropoli tedesca sanno qualcosa, avendovi soggiornato o semplicemente transitato in tempi (più o meno) recenti: ossia la curiosa, paradossale vicenda dei conigli che un tempo dimoravano presso la “terra di nessuno”, creatasi all’ombra del famigerato Muro. Insomma, quei conigli selvatici noti anche come “Mauerhasen”. In Rabbit à la Berlin vengono ripercorse agilmente le tappe di questa rapida, inusuale colonizzazione, partendo proprio dalla presenza del prolifico animaletto nei campi di Potsdamer Platz, oggi cuore pulsante della vita berlinese ma area completamente devastata e ricoperta di macerie al termine della Seconda Guerra Mondiale. Qui come negli altri luoghi che vennero presto circondati da recinzioni e dal successivo, imponente Muro, i conigli trovarono paradossalmente un rifugio comodo e lontano dalle grinfie di possibili predatori, esposto soltanto agli sguardi divertiti dei VoPos; ovvero la famigerata Volkspolizei della Repubblica Democratica Tedesca, schierata lungo quel vallo creato per impedire fughe di massa da ciò che ancora ci si ostinava a presentare come il “paradiso dei lavoratori”. A costo di sparare addosso, come spesso poi avvenne, ai propri concittadini, qualora si scoprissero meno convinti dei loro governanti di vivere in un paradiso. E soprattutto di non poterne più uscire, se non rischiando di finire impallinati proprio come conigli.
Intanto i graziosi mammiferi, con alterne fortune, continuarono a prosperare e a moltiplicarsi in quel lembo di terra al confine tra le due Germanie. Fino a quella fatidica breccia aperta nel 1989, che consentì pure a loro di muoversi liberamente oltre un limite fino ad allora invalicabile… col rischio, eventualmente, di finire più facilmente in padella.
Merito di Bartek Konopka è aver trasformato una storia già interessante di suo in esemplare parabola, in allegoria che si arricchisce di ironiche sfumature allorché la cattività dei conigli e il loro alterno rapporto coi sorveglianti finisce per identificarsi, in modo sempre più esplicito, col regime di controllo sperimentato dagli stessi cittadini della DDR. Le tante ambiguità della loro situazione vengono perciò messe a nudo da un approccio metaforico per nulla scontato. Con tanto di amara considerazione finale sulla “libertà” così faticosamente raggiunta. Tra campi e controcampi beffardi, tra umano e non umano, tra ammiccanti commenti musicali che spaziano dal dramma alla farsa, Rabbit à la Berlin sfonda con audacia e intelligenza i cancelli della ricerca documentaria, dando vita a una metafora esistenziale tanto lieve nella forma quanto penetrante nei contenuti.