“Albrun… è così buio”.
Ciò che attende alle soglie del buio, col tempo fiorisce. I Greci… Per dire che, se già da tempo immemore era palese quanto ciò che non rientra nel circoscritto dominio della Ragione non fosse di per sé trascurabile o ininfluente o, peggio, come è prassi ai giorni nostri, inutile nel senso primo di non riconducibile a uno scopo immediato, ma, con ogni probabilità il portato di un retaggio primigenio ossia, in generale, di un rapporto, quindi di uno scambio che implica un linguaggio materiale e simbolico, allora il gesto compiuto da Lukas Feigelfeld (e stiamo parlando di un esordio, almeno nel lungometraggio) con questo Hagazussa si spoglia pressoché del tutto delle fogge del mero intrattenimento, della rivisitazione o dell’ampliamento di un genere (qui, l’horror), per assumere i connotati intransigenti e insidiosamente contraddittori del monito.
La superficie – levigata, nella sua plumbea consistenza; elegante epperò stranita; di nitore e compostezza pittorici (da Mantegna a Caspar Friedrich, passando per Bruegel) quantunque percorsi da strappi e aggregati cromatici ritrosi, irrisolti, spesso prossimi al buio – racconta di una minuscola comunità montana delle alte Alpi Orientali durante i decenni successivi al passaggio dell’ombra nera della Grande Peste e, in particolare, della piccola Albrun/Peter che, e siamo in apertura (il film è infatti diviso in quattro sezioni, Ombra, Corno, Sangue, Fuoco, di durata e pregnanza narrativa e metaforica differenti), vive in una baita assieme alla madre/Martini, lentamente divorata proprio dalla recrudescenza del morbo. L’esistenza silenziosa e appartata ai margini di un’immensa foresta primordiale, scandita dal passo schivo e solenne dei cicli naturali, restituisce successivamente una Albrun/Cwen giovane donna adulta, madre di un infante cui ha imposto lo stesso nome della nonna – Marta – che si sostenta coi frutti di un modesto allevamento di capre. Solitaria e laconica (la vicenda non conterà più d’una manciata di sue parole), Albrun trascorre le giornate tutte uguali tra la cura della bambina, il lavoro con le bestie e le saltuarie sortite di Swinda/Petrovsky, coetanea dei dintorni, in apparenza più curiosa che diffidente riguardo la nomea di strega (il termine arcaico hagazussa, a indicare la donna che indulge in pratiche perverse, è comune a diversi idiomi del Centro e del Nord Europa) che grava sulla ragazza fin dall’infanzia, vuoi per l’eccezionalità della sua condizione – una famiglia tutta al femminile da sempre restia alla socialità quanto indifferente alla tutela codina delle gerarchie ecclesiastiche del luogo – vuoi per la dubbia paternità delle discendenze.
Messa così, parrebbe di trovarsi dalle parti di un tutto sommato placido idillio agreste qua e là screziato da venature gotiche. Sennonché, l’operazione congegnata da Feigelfeld da subito non solo si pone di traverso rispetto alle coordinate di riferimento di un preciso immaginario scavalcandole, se così si può dire, in virtù della rinuncia calcolata a quasi tutte quelle soluzioni il cui abuso, oramai sistematico, ne ha eroso col tempo il fascino (dai colpi di scena ripetuti alla presenza fisica del Male, giù fino alla spiegazione/riconciliazione/consolazione finale) ma ambisce a proporsi, utilizzando con acume l’armamentario culturale e proiettivo che sottende all’argomento – in senso lato, il pozzo senza fondo della tradizione orale e scritta, le leggende, il folklore alimentato dalla fantasia o dalla superstizione – come uno strumento che, a partire da un’ipotesi che flirta senza attriti con l’irrazionale, è in grado di suggerire qualcosa di singolare e d’inquietante circa il dialogo interrotto dal trionfo della modernità tra la parte più segreta di noi stessi, quella che presumiamo di aver domato col raziocinio, e il respiro aurorale, l’inerzia remota e imprevedibile dell’Anima Mundi, stavolta all’opera nell’organismo senziente di una monumentale e lussureggiante foresta.
In altre parole: una volta sottratte dall’ambito dell’investigazione logica le forme consuete che la Cultura e la Morale hanno selezionato nei secoli allo scopo di controllare il reale interpretandolo (il Bene, il Male, il Mostro, la Colpa, et.); prese le distanze dalle mediazioni offerte dalla Religione e dalla Legge, ciò che resta è quel Mistero dell’indifferenziato che si offre nudo allo sguardo come ipotesi prima di ogni possibilità in una dimensione rarefatta e incerta più affine all’Eterno che alla Storia; come sentimento libero intorno a un mondo che si plasma anche mano mano che il desiderio intorno a lui si precisa o si smentisce, per riproporsi comunque e ancora lungo il corso di un incessante, circolare divenire. Per questa ragione in Hagazussa vengono evocate al limite di un morboso, che però si stempera sempre nella ritualizzazione della sua epifania, pratiche che il tempolineare, quello dei diritti e degli obblighi, delle ricompense e delle punizioni, giudica abbiette: pedofilia incestuosa e stupro, cannibalismo e zoofilia coesistono cioè in una sospensione pre-razionale, pre-sociale, senza che ciò chiami in causa alcuna profanazione di un Ordine, essendo questo definibile tale solo dopo, appunto, un processo di differenziazione. Ed è esattamente la predetta esperienza che Albrun compie su e dentro di sé (e che, dovessimo esserne ancora capaci, sembra dire Feigelfeld, noi dovremmo quantomeno ri-conoscere), una volta avvertita l’inesorabilità del richiamo da parte di forze che non hanno bisogno di assumere una connotazione precisa e riconoscibile (a dire comprensibile mediante gli schemi del Senno e della Cultura), bastando loro la ripetizione costante attraverso i millenni di quella lingua comune- oggi smarrita – che allude alla nostalgia di un’unità originaria sommersa, forse, dal primato della materia, ma mai estinta, nei codici della quale Bene, Male, Vero, Falso, Concretezza, Illusione identificano concetti dai contorni assai sfuggenti (Albrun vede o presume di vedere la foresta richiudersi su di lei ? Sragiona o rinsavisce affidando Marta all’abbraccio immobile della palude ? Commette abominio o partecipa alla rigenerazione del mondo offrendo sangue all’acqua e alla terra ?), in ogni caso soggetti a una specie di primazia organica la cui necessità è pari solo all’irriducibilità della propria persistenza.
In tal senso, diventa persino inevitabile il taglio radicale imposto da Feigelfeld tanto alla messinscena – di reminiscenza dreyeriana nella freddezza sofferta mitigata da lucori fiamminghi dei miseri interni, sovente ostaggi dell’oscurità; come in circospetta attesa di fronte all’elemento naturale pronto a comportarsi come un corpo vivo animato da una volontà che si manifesta – quanto alle soluzioni formali: sublimi grigi lividi (della pelle, dei tessuti pesanti e frusti, degli oggetti d’uso quotidiano) ad avvolgere i già densi silenzi invernali; musiche, suoni, rumori calati nel paesaggio emotivo del contesto, spesso personaggi aggiunti, di malavoglia sfondo o sottolineatura; fissità ominose da dettagli banali; sguardi immemori o straziati da un agghiacciato stupore; brulichii, mormorii, fruscii senza origine o esito visibile. E l’occhio di un animale attaccato al piolo di un istante dilatato all’infinito; il suo teschio spolpato e semisepolto nel fango; il fondale torbido di un acquitrino che rapido germina se irrorato da copiosi rivoli di sangue… L’orrore di Hagazussa, allora, e in particolare ai nostri occhi moderni atterriti da tutto perché più di tutto orfani del Sacro, rassegnati agli orizzonti angusti fissati dall’allucinazione di un presente sempre uguale a sé stesso, risiede forse nel ribadire con l’impassibilità degna della più insinuante delle sentenze che il Male è nelle cose non come dannazione ma come possibilità, una possibilità che attende alle soglie del buio e col tempo fiorisce.
Alessandro D’Orazio