Tra le vibrazioni crepuscolari dell’elogio e i dolci movimenti del racconto emozionato Old Man & the Gun si staglia con gentilezza un poco sorniona, naturale eleganza e umorismo aggraziato. Il film diretto da David Lowery è, infatti, un piccolo tributo alla grandezza di uno dei più importanti attori di tutti i tempi, Robert Redford, qui nella sua ultima parte da interprete. Difficile non riconoscere la precisa consapevolezza dell’operazione, impossibile non identificare nel film un atto d’amore incondizionato verso un corpo cinematografico glorioso. Eppure, innamorarsi con così tanta naturalezza non era scontato: si poteva incorrere nella fastidiosa forzatura del progetto calcolato a tavolino per piacere, nelle geometrie produttive di un film freddo e forzatamente giocato sui toni dell’encomio. Invece il piccolo racconto di Old Man & the Gun, tratto da una storia vera sospesa in atmosfere imprevedibili e punteggiata di romanticismo delicato, è un momento di cinema da ricordare e conservare con affetto.
Lowery utilizza la sua sensibilità di cineasta indipendente per smarcarsi dalla prevedibile grammatica dell’agiografia incondizionata e rumorosa. La sua visione del mito non è poco commossa e responsabile ma è lontana dalle direzioni di un pomposo pilota automatico incapace di ragionare coscientemente sul mito. Il suo grande pregio è leggere nel genere dell’heist movie – che più si presta ad interpretazioni metaforiche e a suggestioni poetiche – la finestra attraverso cui raccontare l’uscita di scena di una leggenda. Uscita evocata attraverso una storia in cui rapine e colpi in banca, fughe ed evasioni (sporcati di un atmosfera anche western) sono atti di passione, gesti che riportano alla vita, che innescano il sorriso e non il grilletto; atti teatrali in cui il rapinatore non è l’agente della tensione, la personificazione del pericolo o un antieroe urbano prodotto dalle malformazioni dell’economia o dalle ingiustizie sociali, bensì un sarto che intesse i fili dell’azione, l’orologiaio che orchestra il ballo degli ingranaggi, il gentiluomo che detta il ritmo e il costume.
In questo modo Redford passa attraverso il film organizzando le tematiche, rubando la scena a grandi comprimari (da Casey Affleck a Sissy Spacek), assorbendo le dinamiche del genere e sprigionando una potenza derivata sia dalla somma dei suoi ruoli passati – ricordati anche attraverso un finale in cui il montaggio sfoglia la memoria cinefila – sia dalla forza narrativa di questo suo ultimo personaggio: un ladro che sorride e che vive l’intensità della vita grazie alle rapine e alle evasioni, perfetto costume per raccontare la sua storia, quella di un attore che è entrato nei cuori per rapinare le emozioni e poi è scappato attraverso il cinema. È commovente allora assistere alla chiusura di una carriera vissuta per folgorazioni e osservare l’ultimo grande lampo negli occhi prima della fine, il segno indelebile di una carriera passata a raccontare storie e a regalare sogni. Emozionante vedere nello sguardo del ladro, rincorso dalle guardie e da una strana forma di realtà, il senso della fine e la scintilla del coraggio. Necessario ricordare questa visione e farla vivere fuori dal cinema.
Leonardo Strano