Il pregio principale de La donna elettrica è la sua abilità nel contenere l’eco delle tematiche di interesse sociale nel perimetro dell’intimità emotiva. La forza che muove la rappresentazione del film diretto da Benedikt Erlingsson, infatti, è rintracciabile nella ferma decisione di far passare la riflessione su alcuni problemi del pianeta e della società occidentale – come lo strapotere delle multinazionali e il riscaldamento globale – attraverso il racconto del profilo di un singolo individuo e quindi di esaminarli nella prospettiva della contingenza del pensiero particolare. La storia di una donna preoccupata delle condizioni geotermiche della terra, allo stesso tempo convinta sabotatrice di una azienda e aspirante madre vicina all’adozione di una bambina, è la fessura attraverso cui guardare dentro a un insieme di temi intrecciati e controversi, toccanti per la loro universalità e preoccupanti per la loro natura urgente e contemporanea. La donna elettrica, pur possedendo una sensibilità emotiva pronta a farsi gioco di se stessa per controbilanciare la serietà dei temi e la lapidaria organizzazione delle risposte concettuali, colpisce con la sincerità dei racconti che sanno fotografare la natura delle persone nei momenti di crisi.
Il film riesce a comunicare grazie a un impianto drammaturgico misurato sull’intelligenza tragicomica propria della cinematografia di genere scandinava e a un crescendo narrativo fatto di stoccate organizzate per indagare il carattere della protagonista: l’equilibrio tra dramma e commedia è sintomo di un controllo dei toni dotato di grande tempismo – la puntualità dei sollievi comici è prevedibile ma a sorpresa sempre perfetta – e la progressione in termini di gravità e partecipazione è prova di un ingegno descrittivo paesaggistico capace di coordinare panoramiche interiori e affreschi ambientali asciutti e potenti. La personalità della protagonista Halla (interpretata con intelligenza da Halldóra Geirharðsdóttir) è quindi plasmata tra interno ed esterno, commedia e tragedia in scambi alternati senza soluzione di continuità e sovrapposizioni ossimoriche altrettanto continue. La somma delle parti è accordata su toni contrastanti ma non disarmonici, contradditori ma non contrari, dissonanti ma non cacofonici, anzi: il ritmo degli opposti che si srotola lungo tutta la durata è quello di una marcia perentoria diretta verso la dimensione mentale del personaggio, diviso tra un bivio esistenziale disarmante.
L’intuizione audiovisiva, che il film utilizza nei primi minuti e ripropone come una struttura di supporto allo svolgimento dell’azione, aiuta molto il percorso battagliero della sabotatrice islandese. La sua protesta è puntualizzata da un commento musicale sopraffino, che aggiunge un grado di conoscenza in più alla visione delle sue azioni. Assieme all’indagine psicologica e alle regole del genere, Erlingsson utilizza il suono come un ulteriore strumento per scalare su una proiezione più grande il dramma interiore di una donna, la deriva di un mondo, il bene di alcuni e la possibilità della speranza, riuscendo da miniaturista in una operazione a suo modo macroscopica: raccontare con perizia formale e tono particolare la piccola grandezza di una vicenda privata e una questione pubblica, una rivoluzione mancata e una rivoluzione riuscita, un atto eroico compiuto e uno promesso. Nella misura dell’individuo e del mondo, di un suono e di un’immagine, trovando con umiltà uno spazio per condividere un messaggio importante.
Leonardo Strano