Fantozzi, un film del 1975 diretto da Luciano Salce. È il capostipite della saga con protagonista il ragionier Ugo Fantozzi, ideato e interpretato da Paolo Villaggio. L’opera adatta alcuni dei racconti inclusi nei due best seller scritti da Villaggio, l’omonimo Fantozzi e Il secondo tragico libro di Fantozzi. Uscito nei cinema con grande successo il 27 marzo 1975, nel 2008 Fantozzi fu selezionato tra i 100 film italiani da salvare. Per la sua interpretazione nel film, Anna Mazzamauro fu candidata per il Nastro d’argento alla migliore attrice non protagonista ai Nastri d’argento 1976. Fantozzi fu un grande successo finanziario: incassò più di sei miliardi di lire rimanendo in prima visione per più di otto mesi e risultando il maggior incasso in Italia della stagione cinematografica 1974-75. Con Paolo Villaggio, Anna Mazzamauro, Liù Bosisio, Plinio Fernando, Gigi Reder, Giuseppe Anatrelli.
Sinossi
Dopo aver lottato con i mezzi pubblici perennemente strapieni, il ragionier Ugo Fantozzi arriva finalmente in ufficio. Qui trova ad attenderlo pile di pratiche da sbrigare rifilategli dai furbi colleghi. Costretto a partecipare a gite aziendali e partite di calcio, Fantozzi è anche ossessionato da una moglie brutta e da una figlia orripilante. Ribellatosi alle regole aziendali, finisce nell’acquario umano del direttore. Dal suo omonimo libro (più di un milione di copie) Villaggio porta sullo schermo il personaggio, le gag e le invenzioni linguistiche che lo hanno reso famosissimo e che sono ormai entrate nell’immaginario collettivo.
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L’Italia aveva prodotto, durante la metà degli anni settanta, un modello antropologico specifico, e Paolo Villaggio, che aveva avuto esperienza diretta di quel mondo, essendo stato un dipendente presso una grande azienda, assorbì totalmente le dinamiche psicologiche imperanti, per poi restituirle con estrema lucidità, contestualizzandole all’interno di precisi rapporti di potere, da cui era pressoché impossibile svincolarsi. E, allora, si trattava di ridere con amarezza di se stessi, di dare al pubblico il riflesso della sua immagine, di mettersi alla gogna. Una comicità, la sua, totalmente innovativa, che riformulò completamente le coordinate dell’umorismo, giungendo all’incredibile risultato di far sghignazzare le masse delle proprie miserabili vite. Insomma, un’impresa straordinaria, che non ha avuto eguali nel panorama cinematografico, non solo italiano. Quello che oggi è ormai un dato acquisito (Fantozzi è divenuto un archetipo, una maschera, alcuni tratti della quale sono inevitabilmente contenuti in ognuno di noi) fu il frutto di una rivoluzione delle prospettive di osservazione, che davvero produsse una sorta di trasfigurazione dell’ordine simbolico, provocandone la crisi, chiedendo, tra una risata e l’altra, di prendere coscienza della deriva cui eravamo fatalmente esposti.
La lista di battute epocali di cui sono letteralmente colmi i primi due film della saga del ragioniere più sfortunato d’Italia è davvero infinita, e potrebbe essere snocciolata per intero, provocando, a distanza di quarant’anni, ancora una notevole dose di ilarità. Si, perché la comicità che Paolo Villaggio propose nasceva da un’attenta analisi dell’individuo medio, un omunculo abbietto, opportunista, feroce con i deboli e ossequioso con i potenti, affetto da una profonda miopia che gli impediva di sviluppare una visione lungimirante di quella che era la sua reale condizione. La messa alla berlina della meschinità dilagante, opportunamente trattata e amplificata dall’acutezza della penna di Villaggio, diede corpo a una nuova forma di commedia, in cui le varie gag trovavano un accattivante sfondo, quello di una piccola borghesia, priva di cultura, di ideali politici, di qualunque forma di nobile interesse, un microcosmo asfittico, affetto da un irrimediabile desiderio di mediocrità.
Lo sguardo di Villaggio, affiancato nella regia dal mai troppo rivalutato Luciano Salce (e da i veterani Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi alla sceneggiatura), era davvero impietoso, e la sua eroica ironia riusciva sistematicamente a innescare una sospensione del tragico, annunciando un tipo di uomo a dir poco decadente, un soggetto ‘che non vuole più volere’, che si lascia trascinare dalla corrente di un pensiero debole che ha definitivamente smesso di porsi in maniera antagonistica rispetto alla realtà, o, quanto meno, di sviluppare una critica minima. Eppure di lì a poco l’Italia avrebbe vissuto gli anni più infuocati della sua recente storia politica, ma il mondo di Fantozzi costituiva il naturale contrappunto, e Salce e Villaggio non mancarono di stigmatizzare impietosamente il contestatore tipo di quel periodo, munendo il ragioniere di sciarpa rossa ed eskimo, ridicolizzando qualsiasi tentativo di sottrarsi alla deriva della più bieca normalizzazione.
Insomma, con Fantozzi si era definitivamente persa l’innocenza, e ogni gesto che provava a smarcarsi da quella insuperabile condizione si scontrava con una realtà che non concedeva alcunché. Forse era proprio questo l’unico percorso possibile: cercare di sgombrare gli spazi saturi dell’incombente postmodernità, rivolgendo altrove lo sguardo, rinnovando le categorie della percezione della realtà e innescando, dunque, nuove azioni e forme di resistenza. D’altronde lo scopo che muove tanta filosofia contemporanea è tentare di rielaborare le modalità di sottrazione alla colonizzazione del ‘discorso capitalista’. Fantozzi costituisce – non è fuori luogo affermarlo – l’eccellente testimonianza, in chiave umoristica, di quella degenerazione antropologica che indusse Pier Paolo Pasolini ad abiurare la Trilogia della vita, fino a debordare nel funerario Salò.